Con una scaletta di ben 26 canzoni e una performance che supera le due ore, attraversando diversi dischi della storia della band americana, i National hanno messo in atto, anche nel suggestivo Parco della Musica “Ennio Morricone” di Roma, quel percorso/show condiviso di espiazione e liberazione collettiva, il cui scopo è quello di spronare le diverse intelligenze umane, presenti sugli spalti e dinanzi al palco, a superare il tossico e nocivo caos informativo che caratterizza i tempi moderni, ad oltrepassare la banalità di molte, semplicistiche, teorie politiche, economiche, sociali e filosofiche, che ci vengono proposte, con un doppio fine, dai media e, soprattutto, a riprenderci il controllo diretto delle nostre emozioni, senza cadere in angosciosi e pessimistici baratri post-pandemici, né eccedere in una inutile, assurda e forsennata corsa verso quel bisogno di mondanità che non potrà mai, in alcun modo, offrirci la salvezza o la redenzione o l’appagamento o la felicità, che andiamo, invece, tutti, disperatamente, cercando.
Ciò sarà impossibile, almeno finché sarà solamente una questione di “io” o di “me”, ovvero una questione che pensiamo di dover e di poter risolvere da soli, davanti ad uno specchio.
Il cavo del microfono che si aggroviglia in continuazione, mentre Matt Berninger percorre, più e più volte, il palco, rappresenta, in fondo, quello che facciamo con il nostro tempo: lo ingarbugliamo, lo rimpiccioliamo, lo accorciamo, lo sprechiamo dietro ad affari inutili, lo incattiviamo con questioni ed impegni superficiali ed, alla fine, non sappiamo più come andare avanti e nemmeno come poter tornare indietro.
La cosa più sbagliata, e la band lo mette in chiaro da subito, già nei primi brani proposti, sarebbe rinunciare alle nostre preziose e confortanti abitudini, agli insegnamenti ricevuti, alle voci delle persone perdute, a tutto quello che – adesso – è diventato uno spazio familiare, ma magari poco incline a piegarsi alle mode o agli schemi considerati vincenti, per inventarsi personaggi, maschere, comportamenti, atteggiamenti che sono assolutamente forzati ed estranei.
Fortunatamente, però, le chitarre dei fratelli Aaron e Bryce Dessner ci vengono in soccorso, con la loro energia ipnotica, con il loro solido e rassicurante muro sonoro e, alternando trame più riflessive e diluite ed altre più dense ed incalzanti, riescono ad esaltare le singole parole, i singoli versi, le varie strofe che il pubblico mostra di conoscere, di voler cantare, di voler assaporare, di voler condividere con chi c’è ed anche con chi è rimasto a casa o non c’è più, per arrivare così, con animo rinnovato, alla conclusiva e toccante “Vanderlyde Crybaby Geeks”.
Il brano conclusivo che sublima, quindi, il fatto di essere tanti, ognuno con la propria peculiare narrazione, ma di essere, allo stesso tempo, qualcosa di intimamente legato e di profondamente connesso; non più tante facce, tanti linguaggi, tanti nomi, tante parole, tante case nelle quali volersi rinchiudere in pace, ma un unico essere umano, stretto nel medesimo destino, minacciato dalle medesime paure, preoccupazioni, difficoltà, ansie o malattie, che tenta di difendere e di proteggere il proprio futuro e quello dei suoi affetti più cari, dei suoi amici, dei suoi figli, dei suoi fratelli, dei suoi genitori, dei suoi simili, dei suoi prossimi, da tutti coloro che non sono affatto delle buone persone – e qui il riferimento politico a Trump è evidente, ma anche ai tanti altri piccoli e grandi tiranni ed assassini che rendono, purtroppo, questo mondo un luogo dannatamente pericoloso, ostile ed insicuro. Stringiamoci, dunque, e facciamolo per amore.