Credit: Michele Sanseverino

La musica è, da sempre, una macchina del tempo: può farti fare salti in avanti oppure all’indietro; può farti tornare alle sonorità calde, melodiche e sognanti di “Anima Latina”, o può farti rivivere quell’epoca – non tanto lontana – nella quale anche l’Italia aveva una scena indie propria e peculiare, oppure, infine, può, semplicemente, spronarti a prendere un’auto, un treno, un bus o una bici ed arrivare al centro di Ferrara, ritrovando proprio lì, nel cortile del castello, il tuo tempo trascorso, immaginando quello futuro e gustando, nel frattempo, che sapore ha il cambiamento, come sono amare le bugie, quanto è dolce, invece, la stupidità.

Quella del 7 Luglio è stata la serata più lirica di quest’edizione del “Ferrara Sotto Le Stelle Festival”. Le parole sono state le vere protagoniste, si sono espanse in ogni direzione, sia spaziale, che temporale, oltre che musicale, lasciando che concetti astratti come “presto” o “tardi”, “adesso” o “mai”, “prima” o “dopo”, perdessero ogni riferimento, mentre Ibisco e Dente ci conducevano in un universo lessicale alternativo, nel quale ogni singola frase era qualcosa di tangibile, di voluttuoso, di architettonicamente ed emotivamente perfetto.

Ibisco ha condotto la magica vela dei suoi brani in un cortile del futuro, in una città del futuro, dominata da idee e da meccanismi del futuro, secondo i quali le emozioni più forti ed intense, quelle che ci attraggono, quelle che ci possiedono, quelle che ci turbano, quelle che ci scioccano, non sono più nascoste, non sono più offuscate, ma vengono, finalmente, vissute alla luce del giorno. Senza più depistaggi, senza più condizionamenti, senza che qualcuno pretenda di imporre il linguaggio giusto, decretando, in base a quelle che sono solamente le sue ristrette prospettive politiche o etiche, filosofiche o religiose, economiche o pragmatiche, quale messaggio abbia il valore “giusto” e quale, invece, è da ritenersi “errato”. Il cantautore bolognese è al di là di queste micro-prigioni che vorrebbero mettere a tacere gli stimoli, gli impulsi, gli istinti che, grazie al potere liberatorio della musica, arrivano sempre più intensamente, sempre più velocemente, sempre più vigorosamente.  

Credit: Michele Sanseverino

E poi? E poi quando Dente inizia a raccontare quella storia musicale che è “L’Amore Non è Bello”, come se fosse lo sfogo per tutto il tempo perduto, per tutte le occasioni sprecate, per tutte le volte che abbiamo lasciato che il nostro bellicoso e malizioso IO sminuzzasse e tagliasse a pezzettini i nostri rapporti, i nostri piccoli ricordi, le giornate trascorse assieme, le domande o le richieste alle quali non volevamo o non potevamo dare soddisfazione, ci ritroviamo, tutti assieme, stretti dinanzi al palco, a fare i conti con le nostre minuscole ed enormi speranze spezzate.

Ma a cosa potrebbero mai servire adesso? A pensare, a questo inutile passato, come se esso fosse uno stupido film? A lasciare che ci ispirino un futuro nel quale, molto probabilmente, faremo altri errori?

Ma intanto quel non-amore, quelle non-parole, quelle non-poesie, così tormentate, così schiette, così vere, così scioccamente attraenti, assumono, oggi, un significato più profondo e, soprattutto, terapeutico. Ci distraggono, ci divertono, ci fanno sentire più ingenui e, quindi, meno cattivi e meno feroci, avvicinandoci alle nuove generazioni, avvicinandoci alle vecchie generazioni, avvicinandoci a tutti quelli che fanno le più grandi cazzate del mondo e poi le spingono dentro un bicchiere colmo di ghiaccio, innaffiandole con gin ed acqua tonica. Avvicinandoci a chi, come è accaduto proprio durante questa serata ferrarese, decide di inchinarsi e chiedere la mano della sua compagna, lasciando che inizi un’altra storia; una storia che, magari, ognuno di noi immaginerà a modo suo, condendola con le proprie aspirazioni, con le proprie esperienze, con tutto il sesso, le promesse, le domande, le urla, i sussurri, le tensioni, le preghiere, le canzoni, le giornate diverse che ci rendono, finalmente e fatalmente, vivi.