Credit: Chiara Porcheddu

Parlare di Udde significa scandagliare l’universo musicale di uno degli artisti più interessanti del nostro Paese. Poco da dire. “Diaspora”, il suo nuovo lavoro – di cui ci siamo ampiamente occupati nella nostra rubrica “brand new” – è un progetto che spazia su più fronti sonori senza perdere mai di vista quelle che sono le coordinate principali del Nostro: ovvero, una grande creatività autorale ed un sound che suona – allo stesso tempo – moderno ed ancorato ai classici della canzone italiana. Un gran bell’album, in pratica.

Quella di Udde è musica per palati fini e dal chiaro respiro internazionale. Non solo. All’interno degli undici brani che vanno a comporre la tracklist di “Diaspora”, infatti, appaiono piuttosto evidenti alcuni richiami agli anni Ottanta di Garbo e Battiato (“Luci”, “Elefante Europeo”), oltre che ad un immaginario Sixties da sempre caro al cantautore di origini sarde. Di seguito, la nostra chiacchierata con Udde.

In primis, lasciami dire che è un piacere poter conversare con te di musica e più in particolare del tuo nuovo album, “Diaspora”, un progetto che ho apprezzato sin dalla prima nota. Anzi, a tal proposito, avrei subito una curiosità da esaudire: è vero che ci sono voluti circa dieci anni per la realizzazione del disco?
Grazie, il piacere è mio. Non ci sono voluti proprio 10 anni effettivi di lavoro per la realizzazione dell’album, ma è vero che sono passati 10 anni da quando ho visto per la prima volta la fotografia (di Chiara Porcheddu) che sarebbe diventata la copertina del disco. Da allora ho iniziato a pensarci, ma in termini molto astratti e vaghi, accarezzavo un’idea. Nel frattempo ho lavorato su un altro album, The Familiar Stranger. Solo al termine del missaggio di The Familiar Stranger ho iniziato a scrivere musica per Diaspora. Quindi non 10 anni, ma 5, dato che nel 2022 le registrazioni erano praticamente concluse. La pubblicazione è slittata al 2024 perché ho tardato nei dettagli tecnici finali.

Qual è stato il brano “chiave” da cui sei partito per poi sviluppare l’intero progetto?
Se non ricordo male, il primissimo brano che ho scritto per Diaspora è stato AHO, ma ancora non era AHO. Era un brano diverso nella melodia, nell’armonia ed anche nella ritmica, ma è diventato AHO piano piano, lavorandoci a singhiozzo lungo gli anni. Ma all’inizio era proprio un’altra canzone. Il primo brano finito, invece, è stato Luci. Si è trattato di un processo molto veloce e senza
rimaneggiamenti. Tutto il resto è venuto dopo.

Ascoltando “Diaspora”, tra l’altro, sono innegabili alcuni riferimenti alla new-wave di Ottantiana memoria (penso al Garbo prima maniera, per esempio). Quanto c’è di quel decennio nel percorso artistico di Udde e, soprattutto, in un album come “Diaspora”?
Non so quantificare il peso di quel decennio nel mio percorso di “musicista” ed in Diaspora. Sicuramente ha avuto un ruolo importante nel mio percorso di ascoltatore, di fruitore della musica altrui, ma non certo più importante rispetto agli altri decenni, dal 1960 al 2010. Ho avuto infatuazioni profonde, a fasi alterne, per tutti i decenni. Forse quello che mi ha conquistato di meno è stato il più recente, 2010/2020, e confesso un debole congenito per gli anni ’60.

Personalmente, ritengo che “Elefante Europeo” sia uno degli “highlights” dell’album: voglio dire, una band come i The Killers (attuali) pagherebbe oro per un sound del genere, dove riesci a far convivere (ottimamente) modernità e retrogusto vintage…
Sei molto gentile. Non chiedo ai Killers mezzo grammo d’oro, non sono venale. Io do loro Elefante Europeo e loro mi danno Mr. Brightside. Mi sembra uno scambio davvero disinteressato…

Entrando un po’ più nella sfera personale, invece, di te si dice che sei un artista un po’ enigmatico. E’ una definizione che ti pesa? E più in generale, quanto ritieni che sia cambiato il concetto di “artista” rispetto agli anni passati?
Direi più riservato, che enigmatico. La definizione di artista mi mette sinceramente a disagio. Ormai non sono più sicuro di sapere quali siano le caratteristiche della figura dell’artista e faccio grande fatica a capire che cosa sia Arte, oggi. Noto, però, che ultimamente gli artisti stiano aumentando esponenzialmente…

Ritornando a “Diaspora”, penso che sia un album difficilmente etichettabile e “senza tempo”, nel senso che lo si potrebbe ascoltare in una piovosa mattinata autunnale o in un caldo pomeriggio primaverile, ma la sensazione al riguardo sarebbe sempre la medesima: ovvero, quella di trovarsi di fronte ad un lavoro che suona già quasi come una sorta di instant classic. Sei d’accordo?
Grazie. Sono contento che tu lo ritenga un Instant Classic. Personalmente non sono sensibile alla “stagionalità” della musica, nel senso che a me sta bene anche ascoltare Black Metal norvegese ad Agosto. Riconosco comunque delle eccezioni, come L’estate Sta Finendo dei Righeira, All I Want for Christmas is You di Mariah Carey, Domenica D’Agosto di Bobby Solo. Queste canzoni hanno finestre temporali molto precise.

Quali saranno i tuoi prossimi step dopo la pubblicazione dell’album?
Sto già lavorando ad alcune nuove canzoni. Non sono impegnato in live e tour, al momento non posso, ed ho comunque qualche riserva nei confronti dei live. Dunque mi dedicherò direttamente al prossimo disco.

Ringraziandoti ancora per la chiacchierata vorrei porti un’ultima domanda: se dovessi descrivere – attraverso un paio di aggettivi – la tua musica a chi non ha ancora avuto modo di approfondirla, come la definiresti?
Densa, “mia” (quest’ultimo aggettivo, oggi, è meno scontato di quanto possa sembrare).
Grazie a te, Francesco, e ad Indie For Bunnies.