Sei anni sono un bel lasso di tempo e – ne siamo tutti consapevoli – in questo ultimo periodo è successo davvero di tutto al mondo: il nuovo e nono LP dei Decemberists è un gradito ritorno dopo tanto tempo e, lo diciamo subito, ci regala un buon conforto.
Prodotto dal frontman Colin Meloy insieme al loro storico collaboratore Tucker Martine (Mudhoney, Neko Case, My Morning Jacket), il disco della band di Portland vede la partecipazione di Mike Mills degli R.E.M. e di James Mercer degli Shins.
Se qualche fan di vecchia data poteva essere stato impressionato negativamente dall’uso dell’elettronica in “I’ll Be Your Girl“, qui ritroviamo suoni più tradizionali al gruppo statunitense, ma assolutamente raffinati e piacevoli.
Partiamo proprio dalla opening-track “Burial Ground” e ci sembra immediatamente di fare un tuffo nella California di qualche decennio fa: luminose melodie, eccellenti armonie (anche con l’aiuto di Mercer) e un suono pieno di quel sole che scalda il cuore con chitarre jangly e percussioni leggere, ma anche con meravigliosi fiati che vanno a impreziosire le venature pop del brano.
Basta fare un solo passo avanti ed ecco “Oh No”, un altra esplosione di fiati e percussioni, che mostra influenze latino americane, lasciando comunque spazio anche a qualcosa di gioioso e lucente.
Ispirata da un diplomatico inglese del sedicesimo secolo, “William Fitzwilliam” è un brano country-folk molto classico, disegnato semplicemente con una sei corde acustica e con una lap-steel, mentre i vocals di Colin sono comunque riflessivi.
“Born To The Morning”, invece, trova potenza e chitarre elettriche oltre al piano e qualche suono elettronico, non nascondendo qualche influenza proveniente dal mondo psych-rock.
Quando pensi che il disco sia giunto alla fine, ecco il singolo principale “Joan In The Garden” a regalarci quasi altri venti minuti: il brano, che tra l’altro ospita anche i vocals di Mills, si muove tra folk dai toni gentili, passando poi a un rock quasi da stadio, a momenti strumentali con la presenza di elementi elettronici per chiudersi ancora con continue progressioni e tanta energia.
Quasi settanta minuti, ma assolutamente godibili che dimostrano il grande valore della band dell’Oregon che, ancora una volta ci stupisce e sa portare numerose variazioni al suo sound, senza per questo snaturarsi troppo o andare troppo fuori dai sentieri che ci ha abituato a conoscere: il risultato è molto buono e siamo sicuri che, alla fine dell’anno, lo ritroveremo molto in alto in tante classifiche.