Un panorama di una Bagdad notturna, illuminata dalle luci dei bombardamenti: è una delle ultime immagini di “Green Zone”.
Siamo giusto un passo più in là dai video ripresi con il telefonino dal tetto dell’albergo Palestine, da cui i giornalisti inviavano i loro servizi in diretta: il passo con cui il cinema sta cercando di rielaborare e di rileggere l’immaginario dell’ultima guerra.
Questa volta, Paul Greengrass è riuscito a stupire tutti, soprattutto quelli che pensavano che l’action avesse toccato un punto di non ritorno, dopo l’esperienza estrema di “The Bourne Ultimatum”.
Lo stile del regista inglese – che è uscito dal docufiction “Bloody Sunday”, che venne premiato con l’Orso d’Oro a Berlino – è riuscito a ribaltare la situazione di partenza in cui Hollywood lo aveva messo: dopo una lenta metamorfosi, l’action dal budget faraonico è diventato un film politico che non manca di coraggio e viene attraversato da un profondo senso di disperazione.
Lo sanno tutti: Paul Greengrass non riesce a tenere un’inquadratura per più di dieci secondi, e il suo montaggio apparentemente casuale, in cui la continuità viene sempre spezzata e messa in discussione, si è adattata benissimo al personaggio di Jason Bourne, l’uomo privo di un’identità .
A differenza di quella funzione che ha sempre avuto nella drammaturgia tradizionale, il primo piano di Matt Damon potrebbe essere il primo piano di qualunque, e il suo nuovo personaggio di “Green Zone” è stato giustamente riconosciuto come un’evoluzione naturale delle caratteristiche dell’altro: da soldato con un preciso compito assegnato, a uomo impegnato in un inseguimento selvaggio, del cui percorso la macchina da presa non riesce a dare un senso e un tragitto compiuti.
Anche a rischio di essere confusi, l’iperrealismo di Greengrass è una sorta di confessione: pur avendone ormai i mezzi tecnologici, il suo cinema rinuncia completamente alla sua vocazione verista, che secondo i Cahiers du Cinema si sarebbe realizzata solo con l’abolizione del montaggio.
Così, ecco che Greengrass taglia ogni volta che può, e nello stesso tempo riesce a fare un film sull’Iraq in grado di rendere conto del senso di confusione che regna nelle percezioni degli americani: lo fa proprio nel momento in cui l’Academy ha deciso di premiare “The Hurt Locker”, il tentativo di Kathryn Bigelow di trovare una forma adatta a questo nuovo tipo di guerra.
Qui, la risposta è nella distruzione dell’unico punto di vista, della soggettiva dominante, della realtà ricostruibile.
In “Green Zone”, viene messo in atto lo smantellamento di tutti i luoghi comuni legati alla figura dell’eroe bellico.
Damon è semmai il tipico anteroe del cinema politico, così come alla lunga è diventato il suo Bourne. E’ un soldato animato da solidi principi, la cui etica viene strumentalizzata da un sistema burocratico avido e bugiardo: la sua è una lotta tra il suo comandamento di salvare vite umane e la necessità dei suo superiori di dare risultati (veri e no, poco importa) in pasto alla stampa, una sfida in cui il suo senso di giustizia è destinato a soccombere.
Il cinema di Greengrass è ancora più deciso: nel caos della guerra (una guerra vera, al contrario di quella personale scatenata dall’agente segreto alla ricerca del suo passato) anche lui e i suoi nobili sentimenti non sono altro che un’altra faccia della medaglia, un altro strumento – forse più sensato, più legato al contatto con il territorio, ma non meno machiavellico – dell’oppressore contro l’oppresso.
La sua Bagdad è una terra di nessuno in cui domina l’anarchia, in cui nessuno sa più chi è il suo nemico, e le sue luci allucinate lasciano l’impressione di un girone infernale.
E’ uno spazio impossibile da valutare, sfugge persino ai sofisticati strumenti GPS degli elicotteri militari, e non è una sorpresa che Greengrass rinunci in partenza a dargli una coerenza ordinabile.
E’ meglio attraversarlo, smascherare i caratteri archetipici dei suoi simboli di un potere che si perpetua (il Palazzo Pesidenziale di Saddam Hussein occupato dagli uffici americani) e le mille insidie delle strade in cui la gente muore, e i soldati si sporcano inutilmente le mani e la coscienza.