Sempre stati una creatura strana ed eccentrica, gli Swervedriver: un po’ come successe ai Pulp con il britpop, gli venne attaccata l’etichetta di shoegazer addosso, e non fecero nulla, nella forma, per staccarsela di dosso.
Amati, idolatrati, e messi nel novero dei pesi massimi del settore insieme ai vari Ride, My Bloody Valentine e Slowdive, quando il loro suono è sempre stato qualcosa di forzatamente incastonabile nella matrice classica di shoegaze: Adam Franklin ha storicamente dipinto tele melodiche particolari e magnetiche, dove invece Jimmy Hartridge è un campione a sporcare di chitarre robuste, ferrose, distorte quanto terrene il canovaccio che sarebbe quello da trame più fluttuanti ed atmosferiche tipiche del movimento.
Dopo la riunione del 2008 e l’album “I Wasn’t Born to Lose You” del 2015, ecco quindi ancora gli oxfordiani come a voler dimostrare il proprio talento e mettere in mostra le loro abilità ; e se vogliamo essere più cinici e spietati, il treno delle operazioni nostalgia sta passando frequente di questi periodi, ed è bene prenderlo al volo.
Va detto, la tarantola e i cambi di passo di “Raise” e “Mezcal Head” sono tratti lontani il quarto di secolo che effettivamente hanno sulla carta di identità . Ma il manico c’è ancora, e anche di questo ne dobbiamo dare atto, seppure il motore sia volontariamente tenuto a giri più bassi e costanti ed o gli occhi o piedi siano fissi in terra e mai insieme verso lo spazio, o pronti a sbandare, caricare, o arrampicarsi. E dai toni, ancora più che dai volumi e dai testi di Franklin, traspare più rassegnazione che adrenalina, rabbia e grinta.
Ciononostante, l’uno-due dell’inizio con le già diffuse “Mary Winter” e “The Lonely Crowd Fades in The Air” è da medaglia al valore, visto quanto c’è in giro ad oggi. E anche i tratteggi della desolata “Future Ruins” si fanno apprezzare per sensibilità e padronanza dei mezzi, quest’ultima difficile da poter esser messa in discussione, laddove però la componente rischio o di volontà di entrare in più tortuosi percorsi sonori sembra davvero ridotta al minimo, e lo confermano le tracce a venire: chitarre sovrapposte e ruvide, sì, ma in un reticolato che sembra a tratti zavorrato a terra, con poca volontà di forzare le catene e provare a rompere gli schemi, al netto di idee o deviazioni in sentieri sonori meno battuti (vedasi le venature post-rock e più aliene di “Everybody’s Going Somewhere and No-One’s Going Anywhere” o “Radio-Silent” in chiusura).
E qui l’unico rischio che si corre è quello di poter essere facilmente dimenticati, seppur il tutto scorra e si faccia prendere con facilità , attratti dal gusto melodico e dalle chitarre che incedono circolari senza soluzione di continuità .
Quindi, giudizio su “Future Ruins”?
Felice di avere ancora a che fare con gli Swervedriver? Sicuramente sì. E il talento, il tocco, il tatto ci sono eccome. Ci sono sempre stati.
E’ questo un capitolo degno di particolare nota per futura memoria? Probabilmente no.
L’attrazione è data più dall’effetto nostalgia che dai contenuti intrinsechi? Anche qua, probabilmente è proprio così.