Ho assistito a un concerto degli Stone Sour nel lontano 2006, quasi quattordici anni fa ormai. Nella bella e laboriosa Milano andava in scena la quarta e ultima giornata della decima edizione del Gods of Metal. In un Idroscalo baciato dal sole di inizio giugno e in fibrillazione per gli attesissimi headliner (erano i Guns N’ Roses), la band statunitense riuscì a ben impressionare i presenti, nonostante il caldo e la sonnolenza post-prandiale.
Ricordo particolarmente bene un episodio dell’esibizione del gruppo capitanato da Corey Taylor – che, per chi non lo sapesse, è anche il frontman dei ben più heavy e noti Slipknot. Galvanizzato dal bestemmione urlato da Max Cavalera nel corso del suo set con i Soulfly, il pubblico accolse gli Stone Sour lanciando insistenti inviti rivolti al vocalist: doveva a tutti i costi tirar fuori qualche tipica imprecazione italiana. Non fatevi troppe domande sui perchè: è un’usanza molto diffusa in questo tipo di eventi.
In tanti cedono volentieri alle richieste dei fan, e Taylor non fu da meno: dopo essersi fatto insegnare da un tipo di fronte al palco la più diffusa espressione ingiuriosa contro Dio, regalò agli spettatori il siparietto blasfemo tanto desiderato. Il gusto per l’insulto facile non sembra essere passato ai nostri, che arrivano al primo live ufficiale della loro carriera con un album provocatoriamente intitolato “Hello, You Bastards: Live in Reno”. Le sedici canzoni al suo interno sono tutte state registrate nella serata del 5 ottobre 2018 a Reno, Nevada, in occasione di una tappa della tournèe di supporto all’ultimo disco in studio, “Hydrograd”.
Non a caso è il più rappresentato in scaletta, con la bellezza di sette estratti: oltre alla intro “YSIF”, fanno la loro comparsa versioni tiratissime di “Taipei Person/Allah Tea”, “Knievel Has Landed”, “Whiplash Pants”, “Rose Red Violent Blue (This Song Is Dumb & So Am I)”, “Song #3” e “Fabuless”, quest’ultima decisamente più veloce e incazzata rispetto all’originale.
Nessun trucco, nessun inganno: i ritocchi ai brani si limitano ai volumi e al missaggio, che riesce a ritagliare a ogni strumento lo spazio necessario per farsi avvertire in maniera nitida. A fronte di qualche minima imprecisione, legata più che altro alla necessità di riprendere fiato (d’altronde, anche lui è un essere umano), Corey Taylor ne esce fuori da trionfatore. La sua è davvero un’ottima performance: intenso e accorato nelle ballad (“Bother” e “Through Glass”), rabbioso e ruvido negli episodi più pesanti (“Get Inside”, “30/30-150”, “Reborn”, la già citata “Fabuless”).
Il frequente alternarsi di parti melodiche e in growl è reso meno gravoso dal supporto nei cori offerto dai colleghi (i chitarristi Josh Rand e Christian Martucci, il bassista Johny Chow e il batterista Roy Mayorga). Dispiace un po’, tuttavia, sentire così tanto in lontananza il pubblico, soprattutto nei momenti in cui viene coinvolto maggiormente da Taylor (in primis su “Absolute Zero”).
Il difetto principale riguarda però la totale assenza di riarrangiamenti o piccole modifiche alle canzoni, che suonano davvero molto simili (per non dire uguali) alle versioni realizzate in studio. Non che ci si aspettassero jam session o improvvisazioni dagli Stone Sour, ma un po’ più di libertà e scioltezza sì. Resta un buon album dal vivo, adatto anche ai neofiti interessati a conoscere meglio il lavoro di questa onestissima realtà dell’alternative metal a stelle e strisce.
Credit Foto © Markus Felix | PushingPixels (contact me) [CC BY-SA 4.0], via Wikimedia Commons