Gli   Orb con il nuovo “Abolition of the Royal Familia” – nelle intenzioni del leader Alex Paterson   un concept album dedicato aspramente alla famiglia reale inglese – aggiungono un ulteriore tassello a una carriera invero ricca di episodi, anche se appaiono lontani i fasti di inizio anni ’90.

All’epoca la sigla sociale dietro la quale, oltre al citato Paterson, ruotavano vari altri deejay tra cui vale la pena ricordare almeno Thomas Fehlmann che a lungo ne condivise il progetto, era una delle più fulgide realtà  di area elettronica ben coniugata alla dance.

Il mix di quelle istanze si concretizzò in un genere, house, che se in loro sarà  seminale, vedrà  poi diversi esponenti internazionali farne vessillo confluendo nel mainstream (seppur di qualità , pensiamo ad esempio ai francesi Daft Punk, giusto per citare degli autentici big).

Gli Orb si mossero sempre più però in ambienti alternativi ma non per questo relegati a pochi eletti, basti pensare a come seppero portare la club culture ai piani alti delle classifiche inglesi.

La spinta innovativa di una musica che poteva essere sperimentale nelle derive ambient e più commestibile nelle versioni danzerecce, si è via via però persa nell’arco di questi due decenni ma va riconosciuta la maestria di Dr. Paterson nel creare ancora di tanto in tanto delle suite interessanti e coinvolgenti, quelle che erano il marchio di fabbrica della casa e che spinsero molti critici all’epoca a definirli come dei moderni Pink Floyd.

Cosa aggiunge quindi questo “Abolition of the Royal Familia” a una storia di per sè già  carica di gloria? Poco o nulla verrebbe da dire mettendosi all’ascolto delle 12 tracce che lo compongono.

Eppure basta tendere l’orecchio con attenzione per farsi ancora trascinare dal groove vagamente funky dell’opener “Daze” – alla cui voce figura quell’Andy Cain che segnò alcune delle collaborazioni più importanti del loro percorso – o ammaliare perdendoci completamente nelle atmosfere rarefatte di “Pervitin” (questa sì in grado di reggere il confronto con i loro classici).

Il gruppo mantiene inalterata la propria anima bipolare, facendo riversare della ribollente house, profusa a fiumi nella paradigmatica “House of Narcotics” e in “Honey Moonies” che rimanda a quel French Touch più sperimentale alla Etienne de Crecy, ma alternandola praticamente in egual misura con una musica più minimale e riflessiva che non disdegna incursioni nella dub.

A mio avviso sono proprio quelle venate di leggerezza (che non sta certo per vacuità ), eteree e suggestive, le tracce dove Paterson mostra di poter dire ancora la sua, finanche ad eccellere nel campo (ne sono esempi fulgidi la malinconica e celestiale “Afros, Afghans and Angels” e la spaziale e ipnotica “Slave Till U Die No Matter What U Buy”).

Su tutte, a spiccare sono non a caso le uniche due suite dell’opera: una “Shape Shifters” (che con i suoi cambi di registro può ben candidarsi a rappresentare appieno le due istanze cui facevo riferimento) e soprattutto “The Weekend It Rained Forever”, che trasuda new age ad ogni pulpito.

Peccato che l’album finisca però per essere disomogeneo, avendo incluso anche brani obiettivamente deboli e poco ispirati, come nel caso del reggae in chiave elettronica di “Say Cheese”, dei suoni giocattolo di “The Queen of Hearts” (che rovinano il mood austero del pezzo) e del pastiche sonoro di “Hawk Kings”, chiaro omaggio allo scienziato Stephen Hawking – cui viene oltretutto utilizzato un campionamento tratto dalla sua voce robotica.

La produzione, curata insieme al sempre più influente Michael Rendall, insomma predilige unire aspetti di per sè molto differenti, spersonalizzando un po’ il tutto e penalizza così un prodotto finale che veleggia in ogni cosa sulla sufficienza piena.