I Marrano hanno tutto da perdere, e lo sanno. Lo dicono sin dai primi respiri di un disco che in momento storico come quello attuale, sa di resistenza culturale: in un panorama musicale patinato e pieno di glitter, la band romagnola entra a gamba tesa, come un invitato poco desiderato ad una festa piena di perbenismo moralista. Nell’era del pre-confezionato, della ricerca estrema della levigatura e della proporzione che alla lunga stanca e annoia, ascoltare “Perdere” significa entrare in una centrifuga musicale che per mezz’ora buona strapazza l’ascoltatore esperto e violenta quello meno avvezzo ad una concezione di musica che possa essere ancora strappo, lacerazione e rabbia.
Vivere nel 2020 significa soffrire di patologie gastro-musicali non indifferenti: le viscere del pubblico italiano non paiono più avere la fibra necessaria per sostenere la digestione del vero di fronte all’abuso del termine arte, distribuito dall’alto per coccolare e giustificare esperienze di ottimo artigianato, realizzate con il dosaggio giusto degli esperti, ma con la scadenza fissata sul retro di etichette buone solo per entrare in playlist spesso piene di ovvietà omogeneizzate. Insomma, rimane ai pochi resistenti l’onere di portar avanti una battaglia difficile, che sembra essere già persa in partenza: la sfida non è nelle mani dei disperati, ma delle nuove leve che sanno di aver tutto da perdere, non cedendo alle sirene del mercato.
Il nuovo lavoro discografico dei Marrano non è un figlio bastardo, privo di riferimenti e di padri: è un’operazione di recupero artistico di sonorità ostili e spesso lontane dall’orecchio atrofico delle radio e di un uditorio rilassato sulle hit usa e getta. Il mondo di partenza – e di arrivo, dal punto di vista del destinatario e dell’autore implicito, come direbbe il buone Eco, nelle liriche di tutto il disco – è quello della scena indipendente dei migliori Novanta: richiami ai Verdena, ai primi Afterhours, alle esperienze più spinte dei Marlene Kuntz con un retrogusto che echeggia di post-punk e grunge nirvaniano (“Quattro venti” avrebbe fatto sorridere, con soddisfazione, anche Kurt). Insomma, una sfida non da poco per un mercato che insegna a muoversi nella comfort zone di stomaci al collasso, a parlare ad un pubblico blob invisibile ed enorme, sacrificando l’identità sull’altare del riconoscimento sociale; “Perdere” non ha la pretesa di arrivare a tutti, ma piuttosto sottolinea l’intenzione dei Marrano di prendere a pugni la nicchia, nel tentativo di farci tornare a sentire qualcosa in questa condizione di splendida atarassia che sta dilaniando il quotidiano di tutti noi, stomaci resistenti.
“Cosa vuoi saperne delle mie scelte? Oggi come ieri mi sento addosso l’invidia delle scelte della gente“, urlano i tre ragazzi di Rimini in “Gente”; e allora, noi non possiamo far altro che augurare ai Marrano un futuro di liberatoria e personale verità quanto quella che detona dall’ascolto della loro ottima nuova fatica discografica, ricordando che il costo della libertà non può che essere l’invidia delle catene e dei prigionieri, per dirla come farebbero loro, dell’ospedale di questa civiltà infernale che continuiamo a voler chiamare Nuova Scena Indipendente italiana.