Bombay, perchè mi devi far star così male? Già fatico abbastanza a convivere con me stesso, se poi tu cominci a dar voce a tutte i miei amori finiti, a tutte le mie scelte non prese, a tutti i miei atti mancati, allora sei davvero crudele.
Perchè Bombay, lo so che stai parlando con me, o peggio, di me: non importa se neghi, non importa se fai nomi e cognomi di quelli che credi essere i tuoi, di incubi e di atti mancati. Non importa se pensi di aver messo tutto il tuo personale dentro “ALBUM”, il tuo nuovo percorso di auto-terapia in dieci sedute che sembrano più dei tiri a segno di psicologi sadici, che ti fanno accomodare su lettini da fachiro e ti squartano il petto con penne stilografiche affilatissime, mentre da una radio distorta collegata ad un curato sistema di dolby surround ti propinano l’ascolto dei primi, ispiratissimi dischi di Ticarico come un esperimento di masochistica musicoterapia.
Perchè, mio caro Bombay, io credevo di averli superati con l’astuzia, i miei mostri: tutti rinchiusi dentro armadi rinforzati di amianto, per far intossicare loro quanto hanno intossicato me, e allo stesso tempo spaventarmi e allontanarmi dall’idea di tornare sui miei passi, aprire le ante e liberare le belve. E ora, Bombay, arrivi tu e non mi avverti che premere play vuol dire ricominciare tutto da capo, con un’intensità nuova, con un coraggio che non ho; e non c’è meta esotica verso la quale scappare ora, non c’è Thailandia in cui rifugiarmi come hanno fatto certi nomi del mio passato (lo vedi di cosa mi porti a parlare, con la tua maledetta musica? Che colpo basso, Bombay“…). E poi ti chiami Bombay e io che progetto di scappare verso le Indie, chi posso prendere in giro? Mi troveresti anche lì, planando sul Pacifico con la tua voce vibrante di pericolosissima ingenuità , piena di quella dolcissima violenza che solo i bambini sanno tirare fuori, nella loro inconsapevole natura di anime animali; mi scoveresti intento a fingermi in meditazione riabilitativa facendo la verticale in qualche monastero tibetano, e io perderei di nuovo l’equilibrio, come sto facendo ora mentre scrivo queste parole di denuncia personale, prima di chiederti i danni per omicidio volontario di tutti i miei ipocriti sforzi di mimetizzazione, di resilienza.
Allora potrei nascondermi, come canti tu, Bombay, in qualche motown che puzza di pneumatici bruciati e vite di altri, affilando i miei coltelli nell’attesa di vederti superare quella porta di lamiera che mi mi separa dalla grande tempesta che fuori imperversa, quella della verità ; e sono sicuro che, una volta entrato in quella nuova bettola di alibi, con il tuo candore spiazzante mi guarderesti, faresti un gesto e i muri del mio rifugio cadrebbero, tutte le bombe si disinnescherebbero mentre tu, vestito di bianco a piedi scalzi sui pezzi di vetri, con una strana e – a questo punto, così me la spiegherei – lisergica luminescenza ad illuminarti la fronte da profeta della mia dolcissima apocalisse, mi chiederesti il più grande dei sacrifici: perdonare me stesso. E di nuovo, come ora, mi troverei punto a capo, a scoprire che la libertà fa paura, e che forse no, non mi va di essere libero, per niente. Perchè sì, perdonare è la cosa più difficile, e basta ripetermelo.
Photo: Samuele Malfatti