Tre anni dopo “Holiday Destination” torna Nadine Shah con un disco conturbante, diverso da quanto fatto in passato anche se non certo rivoluzionario. Lasciati alle spalle problemi del mondo come Brexit, guerre e distruzione riflette questa volta sull’eterno dilemma famiglia ““ carriera che pende come una spada di Damocle sulla vita di molte donne over trenta. Lo fa senza retorica nè banalità , provando anzi a uscire dalla marea di ovvietà che spesso si sente su questo tema.
La voce di Nadine Shah, che ha cantato jazz per anni incrociando la strada di una certa Amy Winehouse, non si abbandona a virtuosismi o viaggi di piacere. Morbida, rotonda, baritonale, diventa presto un altro strumento al servizio di brani concepiti come autoscatti, Polaroid che mostrano donne sempre diverse, non dominanti e mai dome.
Gli arrangiamenti di “Kitchen Sink” sono spesso minimali, dissonanti, allergici alla melodia anche quando il tappeto di suoni su cui la Shah si inoltra con sicurezza diventa più complesso (la title track, i fiati che colonizzano la divertente “Club Cougar” e la sarcastica “Buckfast”, “Ukranian Wine”). C’è anche spazio per un lato sperimentale, ben evidente in alcuni brani (“Dillydally”, “Trad” e “Kite”) con momenti vicini alla tradizione mediorientale che ha sempre rappresentato una percentuale importante del DNA musicale di Nadine.
Non è un disco immediato, che conquista subito le orecchie “Kitchen Sink” ma l’idea della Shah non era certo quella di proporre un album accessibile. Provocatorio semmai, sicuramente fuori dagli schemi anche quando emerge prepotente l’amore mai sopito per il jazz avanguardistico e contaminato in “Walk”. Nessuna sorpresa, speriamo non le manchino ascoltatori attenti.