Attiviamo il radar e scandagliamo in profondità  un universo musicale sommerso. Ogni settimana vi racconteremo una band o un artista “‘nascosto’ che secondo noi merita il vostro ascolto. Noi mettiamo gli strumenti, voi orecchie e voglia di scoperta, che l’esplorazione abbia inizio (e mai una fine)”…

Gli Asteroid No. 4 non sono una band alle prime armi. Anzi. Quello che uscirà  durante l’estate sarà  il loro decimo album anticipato dai singoli “Swiss Mountain Myth”,   “The After Glow” uscito a fine maggio e, in precedenza “Northern Songs” che darà  pure il titolo all’album.

Qui sotto possiamo ascoltarci i tre singoli e iniziare a immergerci pacatamente nella loro musica, che come vedremo, è un fiume in piena che scorre senza una direzione predefinita.

La band, o meglio quello che diventerà  tale, si forma a Philadelphia. Sono  Scott Vitt   (all’anagrafe Vittorelli) e  Eric Harms,  amici sin dai tempi del liceo prima e del college poi. Siamo nella prima metà  degli anni ’90 e le idee non erano ancora avvolte nella foschia delle varie possibilità . Scott ed Eric suonano in varie band, cambiano genere, dal punk all’hardcore, perfino in una cover band degli Smiths. Le mode musicali britanniche hanno una pesante e stimolante influenza sui due che iniziano a cimentarsi nelle cupe vibrazioni dello shoegaze che sul finire degli anni ’80 trovava spazio nella scena indipendente anglosassone. E’ in questo periodo che la band si cristallizza con Greg Weiss  al basso e Bill Reim alla batteria e nascono le loro prime canzoni che nel 1998 finiscono nei negozi, prima su un 7 pollici e successivamente nel loro primo album “Introducing…”. Il nome della band si riferisce a Vesta, un asteroide del nostro sistema solare, il più luminoso. Ci sono quindi evidenti rimandi a una delle band a cui si ispirano, gli Spacemen 3.  

A tal proposito possiamo ascoltare una cover di un brano della band di Rugby, “Losing Touch with my mind” che gli A4 pubblicarono in un album tributo (“A tribute to Spacemen 3”, uscito nel 1998).

Il debut album è ben accolto dalla critica. Brani dal sapore squisitamente psichedelico, la pittura sonica è quella,   come “The Admiral’s Address” che con fare sornione ti trascina con il suo ritmo blando per condurti nella parte conclusiva in un vortice caotico e turbolento o il singolo “What a Sorry Way to Go” che si sviluppa in cadenze e ritmi orientali, con sitar e basso sensuale,

si alternano a episodi più sperimentali e d’atmosfera come la opener “Onizuka” o la spaziale “No More Vitamines” che precede il basso ipnotico ed elastico di “Underbelly of a Mushroom”. Definito un album “space-rock insolitamente originale e innovativo“, le recensioni del periodo accostarono il loro stile “ai primissimi Pink Floyd, ai    The 13th Floor Elevators, gli Hawkwind e ai Verve“.

Il loro secondo album “King Richard’s Collectibles”, viene prodotto da Kurt Heasley, leader dei Lilys, altra band di Philadelphia che con i Brian Jonestown Massacre avevano condiviso il palco con gli A4 nel periodo successivo al loro debutto. Quando si chiama qualcuno per dare una forma alle proprie canzoni e chiedendp qualche consiglio di troppo in fase di produzione, può accadere che il disco che ne esce risulti qualcosa di distante dalla propria natura e molto simile ai suoni della band al cui leader hai dato pieni poteri. La band stessa, successivamente, dichiarò infatti che “King Richard’s Collectibles”è il loro disco meno riuscito e quello che meno li rappresenta.

Il terzo album “Honeyspot” esce tre anni dopo, nel 2004. Un tour del gruppo in California favorisce l’ascolto di band   come Gram Parsons, The Byrds e The Flying Burrito Brothers che influenzano notevolmente i gusti compositivi che ora si fanno addirittura country-rock. Un gesto rivoluzionario che porta alla band nuovi seguaci, che, in pratica vanno a sostituire i delusi: le atmosfere psichedeliche vengono guardate di striscio,   si affievoliscono, lasciando spazio a chitarre pedal steel, armoniche e banjo. Quest’album avrà  una grande importanza nel corso degli anni, segnando un punto di svolta nell’approccio compositivo della band che finalmente trova fiducia nei propri mezzi.

I due anni che precedettero l’uscita di “An Amazing Dream” (2006) videro la band disunirsi per i vari side-projects dei componenti.   La maggioranza dei brani del nuovo album furono scritti ai tempi di “Honeyspot” ma arrangiati in maniera completamente diversa. Nuovi effetti di chitarre e voci riverberate sviluppano un nuovo sound e da più parti “An Amazing Dream” viene definito il vero primo album della band, quello il cui suono è rappresentativo del loro stile da qui in avanti. Si ritrovano e miscelano i suoni spaziali-psichedelici dell’esordio al garage-british invasion del sophomore.

Sempre in California, a San Francisco, durante il tour americano, la band incontra Ryan Carlson van Kriedt che diventerà  a breve il nuovo chitarrista del gruppo.

L’album del 2008 “These Flowers of Ours: A Treasury of Witchcraft and Devilry” vede la band passare all’etichetta Committee to Keep Music Evil, label fondata da Anton Newcombe dei Brian Jonestown Massacre. L’album è così bene accolto dalla critica da essere considerato il loro capolavoro. Gli echi del sound di band come The Rain Parade e Spacemen 3 si affacciano timidamente, la band ha costruito una propria identità  riuscendo a miscelare ancora una volta la psichedelia anni 60′ con quella del periodo Paisley, trovando pure spazio per infilare nel loro carrello della spesa sonorità  british (tra i nomi delle band nominate dalle competenti recensioni troviamo pure gli Stone Roses e i Verve), folk e addirittura punk. Chitarre sporche e distorte, voci calme e riverberate, l’album sembra segnare un punto di arrivo e allo stesso tempo un luogo da dove la band potrà  scegliere il prossimo percorso musicale, sentiero ripido e tortuoso o larghe e lunghe autostrade…

“Hail to the Clear Figurines”, il loro sesto album, esce nel 2011. Le atmosfere si fanno più cupe e fanno la loro comparsa strumenti medioevali come arpe e corni, uno stile “barocco” che avvicina il suono della band a nomi come Love, Left Banke, i Bee Gees fino ad arrivare ai Kaleidoscope.

 

Proprio il leader dei Kaleidoscope, Peter Daltrey, collaborerà  con gli Asteroid   No 4 nella realizzazione dell’album “The Journey” (2013). Un altro musicista di Philadelphia si era unito al band nel 2011, il bassista Matthew Rhodes, formando quella che è la formazione attuale:   Scott Vitt (voce e chitarra), Eric Harms (chitarra), Adam Weaver (batteria e voce) e Matty Rhodes (basso e voce). Daltrey voleva che l’album suonasse come “Younger Than Yesterday” dei Byrds (il loro quarto album del 1967) con suoni sperimentali come il drone orientaliggiante che si unisce al jangle e al country che ormai è diventato, in parte, una loro caratteristica.

E’ in questo periodo che la band si trasferisce nel nord della California, regione che ha sempre fornito una spinta verso incontri e cambiamenti che hanno segnato il destino di questa band. L’album omonimo “The Asteroid No.4” esce nel 2014 e viene pubblicato dall’etichetta londinese Bad Vibrations Records che non riuscì a promuovere il disco come meritava e che divenne pure di difficile reperibilità  oltreoceano. L’album mantiene lo stile musicale della band, qui c’è quasi un ritorno ai suoni del loro debutto, ovviamente vestito con l’esperienza di ben sette album alle spalle.

Arriviamo al loro ultimo album, del 2018, registrato in California dove la band si è costruita una buonissima reputazione in quella che è conosciuta come la baia di San Francisco. Registrato completamente in analogico, l’album ha decisi richiami alle loro prime pubblicazioni, con influenze shoegaze nella sua componente più melodica come possiamo subito constatare dalla opener “Ghost Garden”. Non mancano ovviamente le deviazioni psichedeliche che acquistano un sapore Paisley come la title track o la conclusiva “Cry of Hosana” passando per “Finest of Mimes”

Vent’anni di attività  festeggiati con un grande album che non ha cali o perdite di interesse e energia.

Ci avviciniamo quindi al giorno della pubblicazione del loro decimo album, “Northern Songs”, titolo che sottolinea che il cambio di residenza ora è anche artistico e non solo spostamento fisico e  semplice trasloco. I brani sono stati scritti esclusivamente in questa area del continente americano, nulla più rimane della loro città  di provenienza, quella Philadelphia che li vide armeggiare con chitarre, bassi e influenze britanniche sin dai primi anni 90. I primi singoli ce i mostrano in perfetta forma, dai suoni psichedelici anni sessanta dei Byrds che incontrano il jangly dei REM fino alle voci e chitarre riverberate dell’ultimo singolo con quel basso tipicamente californiano che ci butta tra le braccia di band come i Dream Syndicate o ai già  citati Rain Parade. Resta comunque nella discografia degli   Astetoid No.4 quel sottofondo shoegaze che non hanno mai abbandonato, quei suoni e quel cantato che indubbiamente hanno sempre influenzato Vitt e Harms sin da ragazzini quando per le vie di Philadelphia portavano a zonzo i loro corpi ascoltando i loro gruppi preferiti, i The Church, gli House of Love, Catherine Wheel, Moose, The Kinks, Echo and The Bunnymen, The Chameleons, The Stone Roses“…