I No Age ci riportano sempre alla questione del suono.
Lavorando sempre sui primordi della distorsione, mi stupiscono sempre per la maestria di saper manipolare a scopi armonici la pura essenza del rumore.
Questo basterebbe a definirli noise. Ma la realtà  è da tutta un’altra parte.

L’espediente rotary dell’amplificazione, le entrate e uscite di pure ‘cellule sonore’ e le chitarre spedite vengono sempre quantizzate guardando al pezzo come scopo finale, come al prodotto della singola emozione. Le sfumature non sono date da riverberi, al contrario provengono dalle zone più spugnose dei pezzi.
Il loro magma compositivo è pregno di concettualità . E le loro intenzioni ancor di più. Questo è principalmente ciò che li rende di un’altra pasta rispetto alle altre formazioni duo-batteria/voce/chitarra.

Senza nulla togliere ai piccoli-grandi Japandroids, che mi emozionano non poco e sicuramente non sono privi di concettualità  supportante le loro note, i No Age hanno portato il Pop su una stratosfera ad esso estranea.
Parlo di pop perchè è di pop che si tratta. Non rielaborato. Senza venature punk.
Qui c’è la comunicatività  del concettuale più diretta possibile. Non in funzione del mezzo ma con lavoro sul suono, appunto come i Japandroids. Qui c’è la catena di eventi parola-emozione-esemplificazone-comunicazione che nel pop è mediata da un implasticamento. Nei No Age dall’essenzialità  degli strumenti che piange le proprie corde e pelli scoperte, emotive e fragili ma convinte e accattivanti, tipico di chi sa di fare spettacolo.
Per focalizzarci un attimo sul lavoro che abbiamo per le mani adesso, non possiamo fare a meno di paragonarlo al resto delle loro uscite.
Nouns era un capolavoro di spirito traballante tra ascetismo delle note e jingleismo buonistico.

Ma il successivo EP “Losing Feeling” ha segnato il passo. I due ragazzi di Los Angeles (con studio privato a New York però, i bastardi!) si sono sciacquati le mani della semivolatile soluzione di proto-avant-pop fatto con i rudimenti del suono e si sono levati gli scheletri dall’armadio, per poi registrare quest’opera che stiamo spogliando adesso.
Le tracce hanno preso ancora di più la forma di veri e propri pezzi delineati da struttura interna, e le ondate sonore sono studiate e frapposte come contorno. Cosa che mi irriterebbe se venisse fatto in un disco dei Sigur Ros o di altri, perchè sarebbe una paraculata mediatica. Però qui sono come la maionese nell’insalata russa. Ci vogliono.

In “Life Prowler” li vedo misurati ma sempre convinti di ciò che vogliono dire.
Ma poi c’è “Glitter” e mi tranquillizzo del fatto che sanno ancora fare il loro sporco lavoro.
A parte “Skinned” niente è più così diretto nel disco, ma gli elementi di acustica e 8-bit e sequencing che compaiono sono cristallini e convincono.
Se arrivate abbastanza concentrati (e non fatti) da ascoltare “Positive Amputation”, vi perderete sicuramente in un mare notturno, per poi finire nella cascata psico-sciFi di “Shred and Transcend”.

“Chem Trails” ve la consiglio se dovete entrare in un supermercato con la macchina.
“Everything in Between” è un bel disco non adatto a chi fa finta di ascoltare la musica.

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Everything In Between
[ Sub Pop – 2010 ]
Similar Artist: No Age, Death From Above 1979, Slim Whitman
Rating:
1. Life Prowler
2. Glitter
3. Fever Dreaming
4. Depletion
5. Common Heat
6. Skinned
7. Katerpillar
8. Valley Hump Crash
9. Sorts
10. Dusted
11. Positive Amputation
12. Shed and Transcend
13. Chem Trails

Photo Credit: Danielle Thompson