Qualche giorno addietro Martin Gore, membro fondatore della più grande band di musica elettronica di tutti i tempi, avrebbe dichiarato (in una intervista) di fare musica che capirebbe anche una scimmia. Ebbene, gli incontenibili loop sonori e le urla animalesche provenienti dai sintetizzatori di “Howler”, hanno bisogno probabilmente proprio della spiccata intelligenza di cui le scimmie sono dotate; anche perchè i labirinti elettronici, nei quali si riverberano le calibrate note di Martin,  lambiscono oggettivamente la perfezione dell’elettronica.

A cinque anni di distanza dal suo predecessore “MG”, questo “The Third Chimpanzee” porta con se il meglio dell’esperienza industrial dei primipari Depeche Mode i quali hanno da poco meritatamente varcato la soglia della Rock and Roll Hall of Fame and Museum di Cleveland.

Registrato nella sua casa/studio Electric Ladyboy a Santa Barbara in California, il titolo dell’EP è un riferimento diretto al libro “The Third Chimpanzee” del biologo e ornitologo statunitense vincitore del Pultizer Jared Diamond. Nel libro viene trattato il rapporto tra il comportamento umano e quello animale per arrivare a dimostrare come alla fine gli essere umani sono una versione evoluta delle grandi scimmie con le quali pare condividiamo all’circa il 98% del DNA.

I cinque episodi strumentali del mini album sono intrisi di tutta la strategica perfezione in dote a Martin che scientemente, a parer mio, ha scelto per l’occasione di non offrire in dono le sue corde vocali, onde poter farci entrare completamente in quel suo mondo fatto di synth, drum machine e moog con i quali solitamente si accompagna e che hanno prodotto musica che non ha ovviamente bisogno di presentazioni.

Ci ha pensato “Mandrill” a fare da apripista al nuovo EP con tanto di video variopinto e suggestivo, un brano nel quale è possibile immergersi nelle limpide atmosfere elettroniche che virano in territori meno inquietanti del citato “Howler” e certamente più vicine al successivo “Capuchin”, dotato di ampi respiri melodici di stampo electro-ipnotico.

Gli incalzanti e ammalianti otto minuti di “Vervet” richiamano pillole di DM, come se “Black Celebration” chiedesse un passaggio a “Violator” mentre incontrano “Construction Time Again”, ma che rimangono comunque avviluppati nella dimensione pirotecnica uscita dal genio di Gore.

E, come se non bastasse, la degna chiusura di questo breve ma intensa opera d’arte è affidata ai soli due minuti di una sorta di reprise, “Howler’s End”, i quali da soli reggono il peso di un lavoro innovativo realizzato con destrezza e genialità  e che non difetta nemmeno nel minutaggio, perfetto pure quello.

Grazie Maestro.

Photo credit: Travis Shinn