Atmosfere epiche, suggestioni mitteleuropee e una quantità  industriale di sintetizzatori dai suoni sporchi e freddi: è incredibile pensare quanto fossero diversi gli Spandau Ballet degli esordi rispetto a quelli che, tra il 1983 e il 1984, conquistarono i cuori di milioni di ragazze e ragazzi ““ ma soprattutto ragazze – con le hit di “True” e “Parade”. In principio, infatti, i paladini in giacca e cravatta del sophisti-pop non erano nient’altro che cinque figli della working class londinese che, percorrendo le autostrade elettroniche dei Kraftwerk, sognavano di raggiungere la Berlino gelida e severa della coppia David BowieBrian Eno.

“Journeys To Glory” è un album che, nei suoi trentatrè minuti di durata, si divide tra le asprezze di una sezione ritmica quanto mai spigolosa e gli afflati sentimentali di melodie malinconiche e ossessive, da considerarsi alla stregua di fili rossi che collegano tra loro brani sì austeri, ma anche straordinariamente orecchiabili. Nel timbro caldo e scuro della voce di Tony Hadley, degna di un crooner prestato al Coro dell’Armata Rossa, c’è tutto il fascino e la sensualità  del movimento New Romantic degli albori. Il suo stile di canto, drammatico quando non addirittura tendente all’operistico, si sposa alla perfezione con i gelidi paesaggi sonori disegnati dalla penna di un Gary Kemp poco più che ventenne.

Le otto canzoni da lui scritte in totale autonomia, più che strizzare l’occhio al post-punk, rappresentano l’essenza stessa di qualcosa che potremmo definire anti-punk. In “Journeys To Glory”, infatti, non vi è traccia della furia iconoclasta e delle pulsioni anarchiche che, nell’ormai lontanissimo 1977, stravolsero per sempre i connotati del rock. Qui c’è spazio solo per ordine, disciplina e rigore. E a dimostrarcelo sono i ritmi marziali di “To Cut A Long Story Short”, “Reformation” e “Mandolin”, tre micidiali pezzi di martellante dance rock da caserma convertita in discoteca.

Per gli Spandau Ballet la new wave è un mero strumento attraverso il quale modellare un suono grigio, brutale e inflessibile, per quanto non privo di una strana vivacità  synth-pop. Un’esuberanza che si sprigiona con vigore sulle note di “Musclebound”, un inno allo stakanovismo (!) da cantare in coro, e della strumentale “Age Of Blows”, che potrebbe benissimo essere la sigla di una serie TV poliziesca ambientata in Unione Sovietica. Nel passo funkeggiante di “The Freeze”, così come nell’algida eleganza di “Confused”, le prime, quasi impercettibili avvisaglie del futuro degli Spandau Ballet.

Nella conclusiva “Toys”, invece, domina quel senso di grandiosa decadenza che, stando al monumentale Rip It Up and Start Again. Post punk 1978-84 di Simon Reynolds, tanto piacque alla rivista neofascista Bulldog, che promosse a pieni voti l’album in quanto manifesto di “un’arte muscolosa e nordica”. Fortunatamente il quintetto non cedette alle lusinghe dei giovani dell’estrema destra britannica e, già  a partire dal successivo “Diamond”, abbandonò questa specie di deriva totalitaria e militaresca in favore di un mix tra pop, soul e funk dal fortissimo potenziale commerciale, preservando però quell’aura aristocratica che finì per diventare un marchio di fabbrica.

Per alcuni “Journeys To Glory” fu il classico errore dei principianti, mentre nella realtà  si tratta di un buon disco d’esordio con almeno un brano fenomenale (“To Cut A Long Story Short”). Un lavoro da recuperare assolutamente, anche solo per pura curiosità : è un unicum nella carriera degli Spandau Ballet.

Data di pubblicazione: 6 marzo 1981
Tracce: 8
Lunghezza: 33:00
Etichetta: Chrysalis
Produttore: Richard James Burgess

Tracklist:
1. To Cut A Long Story Short
2. Reformation
3. Mandolin
4. Musclebound
5. Age Of Blows
6. The Freeze
7. Confused
8. Toys