Haters di tutto il mondo, mettetevi l’anima in pace: il nuovo album della famiglia Kiszka è davvero un ottimo lavoro. Anche il grande ed intoccabile Robert Plant, un po’ di tempo addietro, pronunciò parole confortanti e di apprezzamento per la band dalla contea di Saginaw, USA. Ovviamente i gusti son gusti, ci mancherebbe, tuttavia “The Battle At The Garden’s Gate” è un disco con pochi e fisiologici difetti, considerata l’età degli interpreti, che scorre lineare e forzuto nonostante il corposo minutaggio.
Questi quattro ragazzi da Frankenmuth, Michigan, hanno avuto il merito di trascinare in una dimensione mainstream il più “classico” dei classic rock di puro stampo seventies, adornandolo con un suono comunque fresco, ma anche solido e riconoscibile.
Orami è cosa nota che questi talentuosi ragazzi fin dai tempi degli esordi hanno dovuto attraversare una tortuosa strada fatta di amore e di odio, non solo da parte del pubblico ma anche e, soprattutto, da parte della critica che più volte li ha etichettati, piuttosto banalmente ed in maniera scontata, come la “brutta copia dei Led Zeppelin” .
Chiaro che le derive “zeppeliniane” con elementi di Rush sono tra le note, e corde vocali, del quartetto ma è altrettanto chiaro che non può non rendersi conto delle loro abilità artistiche e stilistiche, bisogna essere onesti; per quanto il loro sound per alcuni potrebbero risuonare un po’ “old” e senza troppi slanci, in realtà si dimostra esattamente il contrario con la sua incontrovertibile e massiccia dose di tecnicismo e, in alcuni casi, con effetto wow.
Basti pensare all’apertura di questo sophomore affidata al solenne organo mistico del singolo “Heat Above” che apre al ritmo di chitarre acustiche mentre la potente voce di Joshua caratterizza e caratterizzerà , come prevedibile, il brano e il resto del disco che prosegue con il country-blues di una convincente “My Way, Soon”, con una robusta sezione ritmica affidata al basso di Sam Kiszka ed alla batteria di Danny Wagner, con tanto di assolo d’ordinanza sul finale. In effetti, questi non mancano e sono presenti pressochè ovunque con il picco che si raggiunge nella bella traccia di chiusura “The Weight of Dreams” di quasi nove minuti, dove ancora l’ugola di Joshua accompagna i quasi quattro minuti dell’assolo esagerato di Jake che farà piacere ai nostalgici.
Alla cabina di regia di questo “The Battle At The Garden’s Gate” c’è l’esperto produttore Greg Kurstin (tra gli altri, Red Hot Chili Peppers, Karen O, The Shins, Liam Gallagher, Beck, Foo Fighters) il quale ha di certo contribuito all’evoluzione del sound dei GVF ed in brani come nella deliziosa rock ballad “Light My Love”, che si snoda tra intrecci di chitarre acustiche e pianoforte, in “Age of Machine”, dagli oscuri riverberi, e nei cambi di ritmo di “Trip the light fantastic” , vengono in risalto curati e precisi arrangiamenti.
Poi, è evidente che i ragazzi sono consapevoli delle loro virtù e questo è un vanto che, a mio modo di vedere, si possono assolutamente permettere in ragione, nemmeno a dirlo, della loro giovane età .
Dunque non bisogna stupirsi se nel disco trovano spazio perle come “Broken Bells” che regala momenti epici tra imponenti archi e tanto wah wah nell’assolo di chitarra e come la successiva granitica “Built By Nations”, e pazienza se la prima strizza l’occhio a “Starway to Heaven” mentre la seconda ricorda “Black Dog” degli irraggiungibili Led Zep, perchè vuol dire che questi ragazzi sono bravi. Punto.
Certo, il disco non è esente da difetti, anzi, e probabilmente i maggiori vanno ricercati nel songwriting non sempre di prima penna ancorchè questo superabile punto debole è ben presto lasciato alle spalle con l’ascolto del trittico “Caraval” , “Stardust Chords” e “The Barbarians” che raggiunge, a parer mio, il punto più alto dell’intero album con la prima che ci porta in territori hard-rock laddove la seconda (la mia preferita) incalza con il suo irresistibile refrain mentre in “The Barbarians” le urla di Josh si fanno mature e decise.
L’ascolto di questo “The Battle At The Garden’s Gate” è destinato a soddisfare numerosi palati, anche quelli più esigenti.