Cesare Basile: un instancabile cantautore catanese che periodicamente spezza le sue comparsate nei club per venirci a raccontare cos’è, secondo lui, il mondo oggi. Ogni volta, modernizzandosi nel senso riqualificativo del termine, ma sempre rimanendo fedele ad una filosofia di fondo che è difficile far rinverdire, ma che (e questo è un bene) lo rende inappellabile fonte di giudizi sopra la vita, potremo dire, quotidiana, una neomelodica farcitura talvolta encomiastica altre volte dispregiativa di elementi tipici della nostra società . E non solo, perchè non stiamo parlando di uno sputasentenze qualsiasi, ma di un romantico visionario postdeandreiano, molto quotato per altro, che con le parole riesce a dipingere ritratti che neanche Molière, attaccato ad un mondo che si abbevera di blues americano e resta contaminato solo in parte da tutto il resto, pur attraendo in un’orbita folk il cantautorato classico del nostro paese.
In fondo, ogni suo disco è una piccola perla, in fondo. In fondo, ogni sua canzone è una perla, in fondo. Però quello che affiora in superficie è soprattutto il suo approccio non polemico ma capace di essere un impegnato e distaccato punto di vista sulle comprensibili vicende umane. Per questo molte sue canzoni, anche del passato, hanno parlato di cose d’ogni giorno, hanno citato luoghi che noi conosciamo bene (soprattutto la sua Sicilia, come di nuovo fa in questo disco), hanno nominato anche persone, facendo spesso riferimento all’universo biblico. Figure come la “guaritrice” della quarta traccia, di rimando, potrebbero essere anche rivestite di una certa sacralità ma non è questo il nucleo della dialettica e della lirica di Basile. La sua fertile, fervente ed effervescente poetica è quasi una politica, una scelta, un semplice e continuo accostamento di termini che logicamente costruiscono un discorso, una storia o un racconto.
Curiosità del disco, la presenza dell’orchestra nazionale macedone in “Enon Lan Ler”, che Basile si è andato a cercare personalmente nella capitale Skopje; la presenza di qualche passaggio in lingua siciliana in “E Alavò”, brano comunque apprezzabile dal punto di vista della tipologia cantautorale, a livello di costruzione melodica ed armonica della canzone; infine, una stesura personalizzata di una cantata tradizionale sicula, “La Sicilia Havi un Patruni”, originariamente scritta da Rosa Balistrieri e Ignazio Buttitta, interessante anche per capire il profondo legame con la sua terra che il buon Cesare non ha mai celato.
Per riuscire a proporre in maniera migliore un prodotto come “Sette (o meglio Dieci, come le tracce) Pietre per Tenere il Diavolo a Bada”, si è circondato di una manica di scagnozzi, tutti musicisti chiaramente, di notevole levatura: Rodrigo d’Erasmo e Roberto dell’Era degli Afterhours, così come Enrico Gabrielli e Alessandro Fiori, ma anche altri; l’importante è notare come la sua musica non venga alterata dagli stili personali degli ospiti di cui l’album è infarcito, ma come la personalità del cantautore rimanga visibile e riconoscibile in ogni singolo secondo dello stesso.
Questo disco, l’ennesimo della sua carriera, non aggiunge nulla ad una sequenza di veri e propri capolavori della musica italiana come quelli che Cesare Basile ha sfornato negli ultimi anni. Senz’altro il quarantasettenne è riuscito a confermarsi, a dimostrare di non essere ancora ceduto all’intorpidimento dell’età nè al qualunquismo che la nostra tradizione pop folk sta facendo proprio in maniera letale. E’ rimasto lui, aggiornandosi appena, riproponendosi, restituendo alla propria musica una vitalità che ancora non ha potuto soffocare la brio e l’esuberanza da sempre intrinseche nelle sue liriche. Nel duemilaundici, qui lo dico, è un disco essenziale.
Photo Credit: Andrea Nicotra