La crisi pandemica mondiale ha spezzato, purtroppo, quel filo invisibile che, in maniera unica e bidirezionale, univa gli attori, i musicisti, i ballerini, i cantanti e il pubblico, rendendo ogni singola esibizione dal vivo, allo stesso tempo, un’esperienza individuale e collettiva, fisica e spirituale, liberatoria e riflessiva. All’improvviso i cinema, i teatri, le sale da concerto, i luoghi ““ come il circolo letterario Beatnik, che ci ha ospitato venerdì 24 Settembre, in una piacevole serata di inizio autunno ““ si sono zittiti, si sono svuotati ed hanno perduto quello che è, in fondo, il loro più grande potere: essere uno specchio nel quale le persone potessero scrutare sè stesse, andando oltre la fissità delle proprie forme, oltre gli schemi e i modelli imposti dalla precarietà dei tempi che viviamo, oltre la distanza che separa Campobasso da Vancouver o da New York, oltre tutte le differenze sociali, religiose, economiche e culturali, oltre ogni luogo comune, ogni assurda retorica, ogni cattiva scelta della politica.
Ciascuno di noi si è sentito un’isola, si è sentito sempre più fragile e sempre più solo dinanzi ad un oceano in tempesta, ma adesso è necessario ricominciare e farlo con semplicità e realismo, proprio da quei luoghi più intimi e familiari che, come la saletta al secondo piano del circolo letterario Beatnik, non si dividono tra platea e palcoscenico, ma sono, sia fisicamente, che mentalmente ed emotivamente, un unico spazio umano ed espressivo, sensoriale e percettivo, senza alcuna distinzione tra l’artista e gli spettatori, senza che la diffidenza e la paura ci impediscano di essere ciò che siamo davvero e cioè una “parte del tutto”.
Intanto le dita di Julia Kent scivolavano, pizzicavano e premevano le corde del suo violoncello, ma anche quelle delle nostre coscienze assuefatte, consentendo, a questa magia strumentale, alle sonorità ed atmosfere neo-classiche intrise di elettronica e di riverberi ambient, di ridestarci dal torpore, rimettendo al centro del discorso le nostre vite, ma quelle vere, non la loro scialba e fasulla versione virtuale. L’elemento esplorativo è perennemente in primo piano, le trame analogiche ed umane dello strumento scavano in profondità , nel buio glaciale delle manipolazioni e delle strutturazioni artificiali e sintetiche, mentre l’artista canadese, scalza, comanda un controller midi, dando così vita a diversi strati sonori, che possono essere, di volta in volta, suadenti e misteriosi o elettrici e vibranti. Sembra quasi che essi ci parlino, che ci spronino a cambiare atteggiamento nei confronti di coloro che ci sono attorno, ma anche del nostro pianeta, sempre più vicino al baratro dell’annientamento e della distruzione.
Julia Kent si sente a proprio agio al Beatnik, scherza col pubblico, lascia che le persone si avvicinino e che attraverso la sua musica, punto focale dalle intense connotazioni cinematiche e teatrali, possano, finalmente, vivere il concerto come un’esperienza comune, un punto di incontro e di raccordo delle proprie diverse storie e sensibilità , consapevoli di sè stessi, ma senza sminuire, trascurare o ignorare gli altri, perchè la diversità è conoscenza e la conoscenza è ricchezza.