Indubbiamente la collaborazione fra i fratelli D’Innocenzo e la band bergamasca tradotta nell’operazione “America Latina” (film + colonna sonora) porta in sè tutte le caratteristiche di una felice combinazione artistica, visto la larga intersecazione dei due universi in cui si muovono i soggetti coinvolti, quando nel cinema i registi di “Favolacce” prediligono esplorare i fragili limiti dell’alterazione psicologica di personaggi umanamente abitudinari ma colpiti da follie emotive, mentre sul piano musicale la band di “Valvonauta” ha dimostrato, nell’ultimo decennio almeno, di voler abbandonare i lidi confortevoli del primo post grunge anni 2000 verso territori più sconnessi e apparentemente indefiniti.
Ne escono 19 bozzetti, basati principalmente su tre composizioni (“Brazil”, “Lullaby”, “Scintillatore”) dell’era “Wow” riadattate da Ferrari in modalità condivisa con lo scorrere delle scene, così dicono le cronache, in una colonna sonora che per scelta non concede nulla di più, nessuna parvenza di una canzone nuova, ma neanche qualcosa di strumentale che vada oltre i due minuti o che sia parzialmente compiuto: i Verdena approcciano la loro tentazione cinematica dando la loro semplice nuova versione di sè aggiornata, che appunto dai tempi di “Wow” consiste in un’apertura senza freni alle più disparate influenze, che vanno dalla sperimentazione rumorosa pura, al suono melodico italiano battistiano, più in concreto ad un tentativo non scritto di incorporare una psichedelia nostrana che parta dall’ispirazione rurale per plasmare ogni tipo di risultato, un’idea di modalità di essere musicisti molto simile a quanto fanno da una vita i Flaming Lips, per dire; di fatto, la cosa più apprezzabile di “America Latina” sono proprio questi suoni da western psichedelico di terra e polvere, che rendono l’idea della provincia malata e psicotica di cui si parla nel film, tra voci sussurrate, minimalismo chitarristico a volte classico a volte distorto, con queste schegge di una linearità distonica, che iniziano e finiscono senza un’apparente capo nè coda, ma che lasciano un senso di irrequietezza e di attesa di qualcosa di pericoloso come un’onda che segue gli esperimenti sonori in una sorta di tributo ad una generosa improvvisazione.
La qual cosa di per sè è sicuramente meritevole, i Verdena non fanno quindi cazzate qui, gli spettatori vedranno aumentare il senso di quello che vedono in base alla musica che ascoltano e questo è ciò che una buona colonna sonora deve fare; ma dal punto di vista strettamente musicale tutto ciò non sorprende il caro e attento ascoltatore in quanto il nostro amato trio suona e si vanta di suonare nei boschi da anni, ha in sè le stigmati della sperimentazione, per cui queste cose le conosciamo e le sentiamo già appartenenti ad un certo loro classicismo che fa di questa colonna sonora una produzione transitoria, che nulla toglie e aggiunge a quanto già in nostro possesso, anzi ci mette in attesa di qualcosa che vada a segnare una desiderata maturazione del trio italiano, che da tempo sembra aver intrapreso la strada dell’esplorazione sonora forzata, coraggiosa e stimabile certo, ma di fatto stilisticamente eccessiva (vedasi le montagne russe inutili di “Enkadenz”), come se l’assortimento di generi e la volontà di allargarne le maglie siano da soli segnali di qualità , quando servirebbe maggiore semplicità e sintesi nel formulare canzoni degne di questo nome che la band aveva e forse ha ancora nelle sue corde.
Ma questo non era il proposito di “America Latina” e accontentiamoci.