La nuova fase dei Syndicate approda ad una ulteriore evoluzione, un mix di ritorno alle origini e contaminazione con la contemporaneità dopo le smaccate effusioni psychedeliche del precedente “The Universe Inside”, dando alle stampe un album solido, compatto, senza fronzoli, che ripiega sul formato canzone canonico dai 3-4 minuti.
“Ultraviolet Battle Hymns And True Confessions” sono proprie le confessioni di una band che ha attraversato le ere e che cerca anch’essa nel marasma post covid di trovare una posizione, sapendo di essere al centro di un processo di modificazione dei connotati musicali, in quanto caso quasi unico di un ciclo che nella seconda parte della carriera ha prodotto cose quasi migliori della prima.
Qui in parte parziale, l’album ritorna sui passi di un Paisley Sound dai secchi connotati rock, tagliente e affilato come la migliore scena post punk della Los Angeles degli X per capirsi (“Trying to get over”, “Lesson Number one”), lezioni di classe che hanno contaminato diverse generazioni di musicisti a stelle e strisce, dove le chitarre tagliano gli spazi delle canzoni in un modo simile a come faceva Peter Buck nei brani più crudi dei R.E.M., spietate e con tanta urgenza; ma è l’intero album che si apprezza per la potenza e quantità chitarristica, che al di là dei generi, ne esce con un elevato livellamento produttivo.
La band di Wynn prova anche ad uscire dal guscio del psych rock affidandosi a ballate più controllate e tenere (“Damian”,”Beyond control”) tutto sommato abbastanza insipide, con il proposito di provare a fare qualcosa che possa assomigliare a quanto ascoltato di quello che c’ è in giro oggi, che sa di un revival mainstream addolcito che possa magari passare maggiormente in radio; altrove si possono trovare ballad più essenziali come “Hard to say goodbye” e “My lazy mind” dove emerge e si gusta la qualità del gruppo, con i riverberi giusti e una certa autorevolezza nel proporre qualcosa di antico ancora vivo, che sa di ricordi, feeling ed esperienza , dove i riff entrano e scaldano,
Una band che continua a muoversi avanti ed indietro, ad ascoltare ed ascoltarsi, a percorrere una strada senza conoscere il tragitto, ogni volta leggermente diversa ma riconoscibile, col capitano di tante avventure Steve Wynn dalla voce sempre più roca, quasi dolente in certi tratti ma mai così sicura e definita. I Syndicate mettono giù un bel mattoncino nella loro nuova era, lasciandoci delle sincere confessioni di speranza ma anche scaldando i corpi come nella finale trascinante Doorsiana “Straight Lines”, con le tastiere Cacavas dei Green On Red, un pezzo che senz’ombra di dubbio solo una band così oggi riuscirebbe a suonare.
Credit Foto: Chris Sikich