Al netto di una parte finale molto retorica e ostentosamente woke, con tanto di scuse per suonare woke, che è la cosa più woke delle cose woke, non posso che stra-consigliarvi questa docuserie diretta da Jamie Crawford per Netflix. Basati sugli eventi della terza edizione di Woodstock, quella per l’appunto del 1999, i tre episodi (tanti quanti i giorni del festival) riescono a toccare molteplici aspetti del suo disastro.
Se appare ovvio che l’intento degli autori sia quella di bacchettare l’organizzazione carognosa della kermesse, al punto di insistere perniciosamente su questo aspetto, la serie riesce però ad analizzare quello che accadde nella tre giorni su molti livelli: musicale, sociologico, psicologico e ideologico.

Se da una parte è vero che furono i tagli ai costi di produzione a rendere invivibile il festival e far arrabbiare una copiosa frangia di giovani che si aspettavano, almeno in parte, di rivivere l’atmosfera del glorioso festival del ’69, o magari quella più scherzosa e vanagloriosa della fangosa edizione del ’94, la serie descrive molto bene anche la trasformazione degli uomini in bestie, in branco. Del resto non parliamo solo di incendi e danneggiamenti di strutture, ma anche di numerosi episodi di molestie sessuali, anche nella loro forma ultima, lo stupro, dei quali non si possono di certo incolpare gli organizzatori. Rei, ad ogni modo, non solo della succitata organizzazione vergognosa, ma anche del tradimento totale, in nome del vil denaro, del concetto stesso alla base di un raduno come Woodstock.

A parlare sono gli organizzatori, alcuni partecipanti, diversi musicisti, reporter presenti e vj di Mtv. Il loro mosaico di testimonianze, insieme ai numerosi filmati, fornisce una cronaca vivida, sfaccettata e realistica di quanto accaduto.
Pur non dedicandogli chissà  quanto minutaggio, il documentario cattura anche molto bene l’essenza di molte delle permorfance. Sono ad esempio da brividi le immagini dal devastante set dei Korn del primo giorno, così come quelle di Flea che si dimena completamente nudo dietro al suo basso.

Non sono banali le riflessioni che vengono innescate poi sul ruolo degli artisti, ad esempio quando vengono mostrati i discutibili comportamenti di Fred Durst o di Anthony Kiedis, che in una maniera o nell’altra hanno contribuito al disastro.

A corredo della recensione del nostro Michele riportiamo come Anthony Kiedis, nella sua autobiografia “Scar Tissue” del 2004, vada a toccare l’episodio della loro cover di “Fire” di Jimi Hendrix.

Una delle scene chiave avviene nel terzo e ultimo episodio, quando i partecipanti accendono fuochi enormi mentre i Red Hot Chili Peppers eseguono il brano. Nel doc, gli organizzatori del festival attribuiscono almeno in parte la colpa dell’incidente alla band, ma il loro resoconto manca di alcune informazioni cruciali, almeno secondo la versione del frontman dei RHCP. In ‘Trainwreck’, Joe Griffo, dice: “Poi ho avuto una conversazione nel backstage con Anthony Kiedis. Gli ho detto: ‘Abbiamo bisogno che tu sia d’aiuto, per calmare la folla’. Ma la sua risposta è stata: “Non mi ascolteranno. Non ho nulla da aggiungere“. Griffo continua: “La canzone che ha suonato nel bis è stata un tributo a Jimi Hendrix: ‘Fire’“.

Kiedis però precisa una cosa: la band ha suonato “Fire” su richiesta specifica della sorella di Hendrix, dopo che i piani per il tributo a Hendrix di chiusura del festival erano stati cancellati.

Kiedis ha scritto in “Scar Tissue”: “La sorella di Jimi Hendrix è venuta nel backstage e ci ha pregato di fare una canzone di suo fratello. Sembrava che un tributo a Hendrix di tutte le star fosse andato in fumo, e lei era mortificata dal fatto che Woodstock lo avrebbe dimenticato. Era da molto tempo che non suonavamo una canzone di Hendrix, quindi la nostra prima inclinazione è stata quella di dire di no. Ma lei continuava a dirci quanto avrebbe significato per lei, così dieci minuti prima di salire sul palco abbiamo deciso di fare “Fire”“.

I RHCP avevano già  suonato “Fire” in precedenza e una versione del brano è persino inclusa nel loro album “Mother’s Milk” del 1989.

In “Scar Tissue”, Kiedis ha quidi specificato che i RHCP hanno suonato “Fire” “non perchè c’erano incendi in corso, ma come palliativo per la sorella del povero Jimi“. Ha riconosciuto che la band è stata ampiamente criticata per aver suonato “Fire”, aggiungendo: “Credo che sia stato irresponsabile presentarsi, suonare e andarsene, senza esaminare più da vicino alcuni dei dettagli che circondavano lo spettacolo“. Kiedis non fa menzione del fatto che il sindaco Griffo abbia parlato con lui.

In “Trainwreck”, molti soggetti intervistati condannano l’avidità  capitalistica dei promotori. Questi sentimenti sono stati ripresi da Kiedis in nel libro: “Era chiaro che questa situazione non aveva più nulla a che fare con Woodstock. Non era un simbolo di pace e amore, ma di avidità  e guadagno. La colomba con il fiore in bocca stava dicendo: “Quanto possiamo far pagare di più ai ragazzi per questa maglietta e farla franca?”“.