Ci sono paesi in cui perdersi è l’unico modo per trovare vie che altro non sono che nuovi labirinti, capaci di portare l’intuito a diventare inutile orpello e le bussole a svilirsi nella forma di giocattoli buoni solo per insegnare ai bambini (o almeno, così pare ai grandi che se ne illudono) che, nella vita, possano davvero esistere inamovibili punti cardinali: alla fine, ti ritrovi al punto d’inizio, nello stesso cortile dal quale sei partito e che ora si fa beffe di te, ennesimo paio di occhi e gambe e braccia impaurite dall’idea che senza una meta nessun viaggio possa essere sensato.
è un lavoro duro, di disillusione e di accettazione dell’insensatezza del tutto, quello che l’esistenza costringe ognuno ad operare su sè stesso: alcuni, si perdono convinti di essersi trovati, altri si ritrovano proprio nell’intuizione che tutta la vita sia costante e continuo smarrirsi. Il significato delle parole, in questo mondo di rovesciamenti, diventa vacillante, quasi inutile e pretenzioso: come nel teatro surrealista del primo Novecento, solo a questo punto le parole si mostrano finalmente per quello che sono, “gusci sonori” tutt’al più portatori di “musicalità ” e non più cocchieri di ermeneutiche fini a sè stesse, capaci solo di ridicolizzare l’uomo che le pronuncia con pretesa assennatezza. La più grande disillusione, insomma, nel rovesciamento carnascialesco dell’esistere, diventa comprendere che tutto sia, in fin dei conti, un’illusione.
Ecco, potrebbe essere questa una buona prefazione al nuovo disco di Edda, “Illusion”, ma la verità è che non la è affatto, non la deve essere, non la può essere a rischio di contraddirsi intrinsecamente, col suo tentativo arrogante di restituire un “riflesso” di ciò che, alla fine, altro che non è che una somma di altri riflessi distribuiti in una tracklist densa e aggrovigliata, prisma di rifrazione di una sensibilità incontenibile e incontentabile.
In un qualche modo, però, il sentore di “cerchio alla testa” che la solleticata marea sembra portare a galla si auto-denuncia sin dal primo brano del disco, “Mio capitano”: Edda lancia l’ascolto in alto mare e si lascia portare a fondo e poi galleggiare di nuovo dalle correnti di una scrittura che sfocia quasi nell’automatico, in flusso di (in)coscienza; non esistono appigli ai quali aggrapparsi, nè derive in cui confidare per sfuggire ad un naufragio che diventa simbolo e sintomo di capovolgimento: le parole si sgretolano, sciogliendosi come gomene mal ancorate ad ormeggi ormai marciti da salsedine e tempo. Il viaggio comincia o, forse, è già cominciato da prima che ti accorgessi di aver raggiunto ormai il largo. La sensazione di nausea continua con “Alibaba”, dove pulsioni e segreti (in)confessati si affastellano su un orizzonte che sembra portare lontano lasciando che a brillare in cielo sia ancora il simbolo di una “croce”, di una moralità che appare ora tremendamente immorale.
“La croce viva” diventa così una processione quasi sillabata di moniti, che allude alla rinascita come unica possibilità di redenzione – sì, ma attraverso la consapevolezza di ciò che si è perso e non compreso. Dopotutto, l’idea del “non conoscere”, l’idea del non comprendere la differenza (perchè non esiste?) fra “giusto” e “sbagliato”, o voler fingere di non avvertire il richiamo dell’ “osceno” (inteso come tutto ciò che sta fuori dalla cornice dello sguardo, con il puntiglio “morale” che arriva ad assomigliare al frustino per il sadomaso), l’attitudine al muoversi sul filo di una chiacchierata “decenza” perdendo volontariamente più e più volte l’equilibrio emerge anche in “L’ignoranza”, e in “Buonasera Signorina” è lo stesso Edda che sottolinea che, nel grande ingranaggio del sentire comune (che finisce col farci assomigliare alle “nostre madri”) tutti diventiamo “carburante” delle convenzioni sociali, impegnandoci in arrembanti e disperate ricerche di attenzione ed affetto che si concludono con disagiati tentativi di “dare il buon esempio” seduti al tavolo di un bar, mentre anneghiamo nell’ennesimo weekend cittadino.
Le atmosfere sembrano distendersi con “Trema”, che lascia vibrare nell’aria poche cose (una voce e una chitarra) per restituire al testo una dimensione quasi intima, personale e allo stesso tempo collettiva (come i cori della tragedia greca) e che, sul finale, sembra quasi aprirsi al mistico con una volata polifonica che pare quasi disegnare le navate di una basilica sugli ultimi trenta secondi del brano – come avrete intuito, il misticismo fa sicuramente parte di un disco che rovescia i santi, li mescola con i folli e ne deduce una chiave d’accesso a nuovi paradisi lisergici. E nel saliscendi di “Illusion”, “Carlo Magno” si presenta come un ascensore di cristallo pronto a lanciarsi verso l’etere partendo dal basso ventre: una cavalcata rock’n’roll che diventa un modo per levare dalle scarpe, con il solito carico di sardonica e cinica ironia, una buona quantità di sassolini che paiono aver appesantito, almeno fino a questo momento, il volo di Edda.
Adamo ed Eva, o Eva ed Eva, o Adamo e Adamo sono i genitori di un disagio che in “Gurudeva” affonda le radici nella perduta ed originaria santità di chi non chiamava ancora “peccato” il desiderio perchè, semplicemente, non esisteva nè si avvertiva la necessità di una parola del genere, nata dell’invidia di un Dio geloso: è qui che si manifesta la potenza “dissacrante” di “Illusion” in tutta la sua casta purezza, quasi sussurrandoci che non ci sia nulla di “dissacrabile” perchè l’idea di “sacro” che il cantautore forgia è lontana anni luce da schemi morali e convenzioni che oggi Edda pare aver trasformato definitivamente in nuovi trampolini di slancio intellettuale, da catene quali erano – potere, mistico anche qui, della trasfigurazione del simbolo.
Ed ecco che, con il passo deciso ed elegante della matrona, al carnevale liberatorio di “Illusion” si unisce anche “Lia”, donna-angelo tipicamente eddiana che si fa ricettacolo di una serie di pulsioni che mescolano ancora “sacro” e “profano” (con le precauzioni d’uso, circa questo tenore di parole, espresse fin qui), moti pelvici e armonie celesti nella resa di un brano che s’insinua quasi come un refolo di vento dentro la manica di una camicia che si sbottona sempre più, attimo dopo attimo, lasciando nudo chi ascolta almeno quanto chi canta. Per questo, sin dalle prime note di “Mirai” l’ascoltatore finisce con l’avvertire una sorta di “shock percettivo”, e a doversi ricoprire dei vestiti persi di fronte allo sguardo quasi un po’ maligno di Edda, che sembra ben deciso a “mettere al muro” tutti i nostri difetti in una smascherata collettiva che si bea del gusto di Maroccolo nell’arrangiamento, qui come in ogni traccia di “Illusion”.
Ecco perchè, alla fine di “Brown”, ti rendi conto di aver cominciato un viaggio che non sei ancora pronto a comprendere e che a suo modo parte proprio dalla fine, dalla necessità di immergersi ancora e ancora in un ascolto che regala, ad ogni nuova decodificazione, infinite epifanie di senso e significato, infinite nuove illusioni di aver capito chi sia davvero Edda. E “tutta la fatica che ti senti addosso/ non ti farà tornare”, quanto meno non uguale a ciò che eri.