Quando pensiamo ad un film prodotto nella tecnica dello stop-motion non possiamo non pensare al genio di Wes Anderson, o al capolavoro di “Nightmare Before Christmas” o ancora al divertente ed iconico “Galline In Fuga” (per non parlare di “Wallace & Gromit”).  Nella storia di queste pellicole alternative, catalogate e innalzate alla pari di un lungometraggio con attori veri, ora possiamo anche annoverare il “Pinocchio” di Del Toro uscito da poco su Netflix per il periodo natalizio.

La storia del burattino diventato vivo è oramai nota a tutti fin dall’Ottocento quando l’autore Collodi iniziò a pubblicare a puntate la sua storia,  facendola terminare con una bella impiccagione del protagonista da parte del Gatto e della Volpe. Cambiato il finale come richiesto dalla miriade di fan dell’epoca, le vicende del bambino di legno sono ora note a tutte essendo state portate sul grande schermo un po’ da chiunque: ricordiamo ovviamente il cartone Disney, il film di Garrone o ancora quell’insulso abominio con Benigni ad interpretare un Pinocchio quarantenne e una fata madrina (l’intramontabile Braschi), per non parlare della bellissima canzone di Bennato, anch’essa rivisitazione (musicalmente parlando) della vicenda.

Prendere quindi questa storia e farla di nuovo è sicuramente un azzardo poichè le linee narrative son ben conosciute al grande pubblico e possono facilmente stancare se non re-immaginate a dovere. Proprio per questo Guillermo Del Toro ci propone la sua versione della fiaba in un modo più dark e più spaventoso che mai.

Credetemi quando vi dico che in verità  non è diventata una fiaba horror per grandi, bensì un racconto per adulti ma diretto proprio ai bambini. I personaggi sono più o meno gli stessi, le ambientazioni invece no: il racconto viene inserito nell’Italia della Prima Guerra Mondiale e successivamente del periodo fascista, dando gran ampio spazio agli sviluppi che hanno portato il nostro paese nella dittatura.

Geppetto (con la voce di David Bradley) perde il suo figlio unico Carlo durante un bombardamento e dilaniato dal dolore decide quindi di fabbricare un bambino di legno che prende vita la notte stessa grazie alla fata madrina Tilda Swinton. Pinocchio è un bambino esuberante, appena nato in un mondo ostile che gli va contro ma che non lo ferma dal voler esprimere ciò che lui è nel profondo. Le avventure di questo ragazzino di legno, doppiato da Gregory Mann, sono accompagnate dal fedele grillo parlante (Ewan McGregor) che cerca in tutti i modi di esortarlo ad essere un bambino buono e non invece egoista.  Di conseguenza il nostro piccolo eroe deve districarsi dal freak show di Mangiafuoco (o Conte Volpe) di Christoph Waltz, insieme alla scimmia Spazzatura (Cate Blanchett), e dalla volontà  del Podestà  fascista del paese (Ron Perlman) di farlo diventare un soldato immortale del regime. Proprio durante queste scene di duro e mascolino addestramento conosce e diventa amico di Lucignolo (Finn Wolfhard), anch’esso contrario alla dura legge delle camice nere. Non manca poi la parte in cui vengono mangiati non da una balena, ma da un mostro marino e disgustoso.

In generale questo cartone d’animazione è di gran lunga un capolavoro che va a concludere un grande anno per il cinema internazionale. Non solo per la rivisitazione della storia, che vuole trasmetterci quanto dobbiamo essere liberi di esprimerci in un mondo già  settato e prestabilito, ma anche per le musiche (scritte da Desplat e Del Toro insieme) che non sono le stesse ovviamente che tutti conosciamo.  Non mancano i chiari riferimenti alla morte e all’aldilà  che abilmente il regista inserisce all’interno della pellicola non per spaventare il suo pubblico, ma ancora per insegnare tematiche fondamentali a lui care.  Il risultato finale è  quindi una grande avventura delicata e commossa, con l’obiettivo più della riflessione che del divertimento e che non vuole quindi mirare con la sua maestosità  metaforica ad un pubblico prettamente adulto, quanto ad uno più piccolo per esortarli ad essere in un futuro come vorranno loro.