Scrivere la recensione di un film muto è cosa ardita, almeno quanto decidere di farne uno passati di boa i primi undici anni del nuovo millennio. Ma d’altronde si sa, i francesi sono testardi e determinati molto più degli accoliti del catastrofismo Maya.
America, 1927. George Valentine (Juan Dujardin) , star del cinema muto, partecipa alla prima del suo nuovo film “A Russian Affair”. Fuori dal teatro lo attende una folla entusiastica di giornalisti e ragazze strepitanti. In mezzo al mucchio si distingue Peppy Miller (Bèrènice Bejo) che, nell’atto di raccogliere la sua borsetta, viene scaraventata tra le braccia del divo guadagnandosi una serie di scatti da prima pagina. Quel breve momento di notorietà scava nella giovane ragazza incessantemente, coltivando un desiderio artistico fino ad allora sconosciuto. Determinata si dirige il giorno dopo negli studios Kinograph dove il suo destino tornerà a legarsi, stavolta indissolubilmente, con quello di George.
La tradizione del cinema muto è ben stampata nella mente del cinefilo tanto quanto gli avvenimenti di prima e seconda guerra mondiale lo sono in quella dello storico. Alan Crosland, Charlie Chaplin e Al Jolson sono le colonne corinzie con cui bisogna fare i conti se si è determinati a riaprire quel capitolo. La fame di Michel Hazanavicius è in questo senso più che ammirevole, incomparabile. Nonostante la riproposizione delle vecchie tecniche di ripresa, la regia riesce a non esasperare la parabola mimica (mugging) necessaria agli attori del primo cinema muto, restituendo così al pubblico ultradigitalizzato un delicato aforisma del tempo che fu. Nulla di tutto ciò sarebbe però stato possibile senza il manforte di Dujardin e del suo cagnolino Uggie. La scena è montata interamente su di lui e su i suoi baffi (anche loro parte integrante della meritata candidatura – a mio parere vincente ““ ai prossimi Oscar) . L’unico frutto non pienamente maturo sembra essere la musica. Nel cinema muto musica vuol dire dialogo, ma qui le note di Ludovic Bource sembrano talvolta arrovigliarsi troppo su una melodia quando ormai la pellicola si trova oltre.
Anche se è indubbio che il suo plauso sia contornato da una nota d’incomprensione, e quindi d’esaltazione, “The Artist” ha il grande merito di un classico: raccontare una storia perduta negli anni con la lucidità delle parole sempre nuove del presente.