Foto Thanx to Francesca Colasanti
Centonovantasei secondi. Da silenzio a silenzio, dalla delicata violenza delle strade di Shepherd’s Bush alla violenta malinconia che risuona nelle menti quando la musica si ferma e le luci tornano ad accendersi.
Kristy Clark si presenta come “un’australiana”. Semplice, come la sua musica, che sembra essere quintessenziale al suo essere. Quintessenziale a tal punto che immaginarsi come questa suoni su album, lontano dalla sua presenza, di nascosto dal suo sorriso timidamente misurato, sembra quasi oltraggioso come parlare durante “Snowflakes”: una traccia che neanche i problemi tecnici e il feedback costante possono rovinare.
La sua cover di “Over the Rainbow” è la perfetta sintesi di profondità e emozione che lei bilancia con un approccio del tutto personale ad un folk reminiscente la prima Joan Baez, seppur con una leggerezza e una naturalezza che sono proprie di una verginità musicale solo sfiorata dalla routine della devozione ad un songwriting canonico, scontato.
“Find a Way” chiude una performance che ci ha regalato una giovane cantante con una personalità complessa da scoprire, ma la cui voce e ispirazione offrono una sensibilità rara e struggente.
Passano pochi attimi e la Bush Hall riemerge in tutto il suo anacronistico splendore appesantito da drappi di velluto rosso, stucchi, specchi e quella sensazione di decadenza barocca che contrasta con l’asciuttezza fisiologica delle strade e dei banchi del mercato appena fuori.
Alx and Hanging the Star salgono sul palco e la Hall si riempie di pubblico mentre una tensione tutt’altro che apparente contribuisce all’accrescere delle aspettative.
Per coloro che hanno visto il concerto di Alx con Bruce Soord dei Pineapple Thief alla Union Chapel l’anno scorso, l’apertura con “Remember the Idiot”, sebbene pubblicata sul recente EP “Concussion” e quindi relativamente sconosciuta, porta alla memoria quella prima volta in cui Alx dimostrò di essere ben più di una voce di supporto.
La mente di un ascoltatore gioca strani scherzi e questa è una delle ragioni per cui il primo nome che affiora alla mente è quello di Beth Orton. Le due cantanti sono del tutto diverse nello stile eppure ferocemente simili nell’approccio ad una composizione eterogenea, visceralmente ingenua e priva di forzature.
Si potrebbe pensare che quando un’artista è supportata da una band (pardon: un “collective”, per usare le parole di Alx), che fino a un’ora prima aveva intrattenuto la platea con buon gusto e standard jazz, il resto sia facile, scontato.
Il pensiero sarebbe del tutto giustificato, ma errato nel caso specifico. Alx Leeks sembra essere il focus dell’attenzione e lo è con tracce come “Slow” e “Catalyst”, che dimostrano come la sua voce calda e potente sia un bene tutto da scoprire. Succede allora che il collective lasci il palco e Alx si segga al pianoforte da sola, mentre le luci sembrano abbassarsi seppur restino della stessa identica intensità . “Sentimental” dei Porcupine Tree prende vita in un modo che definiremmo “blues” se potessimo spogliare l’aggettivo della sua accezione musicale. C’è poesia e una traccia di dolore nella sue dita mentre la voce assume un tono ancora più profondo giocando con le dinamiche di un brano presentato in tutta la sua gloriosa disperazione. Steven Wilson, tra il pubblica, annuisce.
“Northern Lad” di Tori Amos è semplicemente un grandissimo brano eseguito da un’artista estremamente talentuosa, ma il picco toccato dal brano di poco prima rovina in un certo senso quella che resta comunque una traccia dall’altissimo contenuto espressivo.
C’è il tempo di un altro paio di brani col resto dei musicisti che raggiungono Alx sul palco.
“Cigarette Song” è uno dei motivi per cui siamo qui stasera; qualcosa più di tre minuti che confermano come Alx Leeks possa scrivere brani di alto livello. In poco più di tre minuti siamo di nuovo al freddo. Centonovantasei secondi. è tutto ciò che serve.