I Farmer Sea sono uno dei segreti nascosti meglio custoditi del panorama indipendente italiano. Tanta gavetta, una capacità  di scrittura notevole, suoni che spaziano tra Nada Surf, Death Cab for Cutie più trasognanti e Notwist nelle brevi incursioni elettroniche. Il classico gruppo che se fosse inglese sarebbe accolto con i tappeti rossi all’ingresso dei locali.

Arrivano nel 2012 con “A Safe Place” un lavoro semi-autoprodotto che traspare cura dagli arrangiamenti ai suoni passando per l’evocativo artwork. C’è sembrata l’occasione giusta per fargli qualche domanda.

Ci potete raccontare la genesi di “A Safe Place”?
“A Safe Place” nasce da un periodo di cambiamenti, disillusioni e vicende complesse che hanno minato seriamente il progetto Farmer Sea: a metà  percorso abbiamo realizzato che l’unica maniera per andare avanti sarebbe stata una seria autoproduzione, messa in moto dall’entusiasmo e forse anche da un certo sollievo nel non dover seguire limitanti imposizioni discografiche dettate da infime etichette (che, per esperienza diretta, possiamo dire che non mancano affatto sul territorio).

Nel momento in cui abbiamo iniziato a scrivere nuovo materiale, l’idea comune era quella di dare un taglio meno “indie” alla nostra proposta, sia per allontanarci dall’estetica sbagliata che nel genere imperversa, ma anche complici i nostri ascolti di sempre (chi segue il nostro account last fm può confermare).
Pensiamo di essere riusciti nell’intento, oltretutto sapevamo che una scelta di questo tipo avrebbe potuto significare un pesante rovescio della medaglia: venire considerati derivativi o comunque poco originali. Ne prendiamo atto serenamente, nella speranza che chi ascolta il disco si renda conto che il contenuto è tutto tranne che una banale riproposizione dei nostri riferimenti.

Una delle più grandi potenzialità  del vostro progetto è quello di riuscire ad evocare degli scenari emotivi
Penso sia una bella sensazione, alcune recensioni ricevute addirittura descrivono quasi esclusivamente le emozioni e le visioni (!!) scaturite al primo ascolto, questo significa che abbiamo fatto un buon lavoro: abbiamo cercato effettivamente di ricreare un mood principale. Anche l’artwork, che è un po’ il contenitore, è un qualcosa che va di pari passo con il discorso del contenuto, cioè le canzoni.

Come giudicate la “scena” italiana? è cambiata negli ultimi otto anni, da quando avete cominciato a suonare?
Per certi versi sì, è cambiata, per altri aspetti -quelli negativi- rimane sempre la stessa. Qualche anno fa, per esempio, non percepivamo così marcatamente una certa differenza di attenzione per i gruppi che cantano in italiano rispetto a quelli che cantano in inglese.
Sarà  stato l’ingresso fulminante e vincente della nuova ondata di proposte italiane come Offlaga, Teatro degli Orrori etc, e sicuramente molti “addetti ai lavori” hanno sentito che questa poteva essere una giusta via per arrivare più in fretta al pubblico, piccolo, medio o grande che fosse. Un tempo, tra le altre, etichette c’era la Homesleep che lavorava più sull’internazionalità  e su tentativi di esportazione dei nostri gruppi. Ultimamente, con le dovute eccezioni, non c’è quasi più traccia di quella volontà , sembra una gara tra sedicenti discografici in cui vince chi scopre per primo il nuovo Battisti, il nuovo Rino Gaetano, etc…

Ultimamente leggevamo un’intervista di Bruno Dorella (OvO, Ronin, Bachi Da Pietra) dove affermava che farsi booking da soli è quanto di più stressante ci sia al mondo (musicale s’intende). Quanto e come potrebbe cambiare in meglio il meccanismo della musica live in Italia?
Intanto vorrei approfittare per dire che i Ronin sono senz’altro tra le migliori band in circolazione in Italia, da molto tempo. E ci sentiamo di confermare e sottoscrivere questo genere di affermazioni. Sono 8 anni che curiamo personalmente la nostra promozione live e la parola che viene subito in mente è “frustrante”. E’ qualcosa che ha a che fare con situazioni come arrivare a ridurre all’osso il cachet pur di suonare e promuovere il disco che tanto hai faticato a stampare con i soldi della cassa comune, fino ad andare ripetutamente in perdita con le spese di viaggio, farsi scavalcare dai booking nel proporsi ai locali etc…La cosa che più dà  fastidio in tutto questo forse è la disparità  di trattamento che i gestori dei locali riservano a chi si presenta senza una intercessione di un booking.

Non so quanto possa migliorare di questo passo la musica live in Italia, ma di certo sarebbe già  importante se i promoter, i booking e anche i gestori dei locali lavorassero con più onestà  intellettuale, cercando di dare un giusto valore alle proposte -anche in termini di cachet-, che esuli dall’hype o dall’immagine “cool”ricamata ad arte per vendere le serate, ma che prenda in considerazione la caratura dell’artista in sè, così come cose più banali eppure quasi mai contemplate, come la quantità  di chilometri percorsi dagli artisti per raggiungere il locale.

Secondo voi come sarebbero differenti i Farmer Sea in un contesto estero, lontano dall’Italia ? Sareste una band differente?
Penso che a livello stilistico saremmo esattamente gli stessi, ma certamente con più possibilità  e soprattutto con meno scetticismi legati alla lingua, che è un problema esclusivo dell’Italia. Ci sarebbe da chiedersi il perchè di questo, forse c’è un senso di inferiorità  imperante nei confronti della musica estera, che di certo non si affronta chiudendosi nella propria lingua madre.

Se i dEUS o i Motorpsycho non avessero deciso di cantare in inglese, probabilmente non sarebbero arrivati a noi così facilmente. Noi non discriminiamo di certo il cantato in italiano, sono scelte artistiche, che però non vanno messe su piani diversi di importanza, altrimenti c’è il rischio di mortificare un discorso artistico magari anche valido per competere e confrontarsi con realtà  estere.

Che rapporto avete con la vostra città  natale, Torino?
Un buon rapporto, è una città  viva artisticamente più di quanto la gente non creda. Ci sono state e ci sono realtà  tuttora interessanti, abbiamo creato l’etichetta anche per cercare di capire se è possibile valorizzare questi piccoli movimenti territoriali e raggrupparli, un po’ come ha fatto inizialmente la Arts&Crafts o la Constellation inizialmente, in Canada. Non sappiamo ancora se questo avverrà , solo il tempo dirà , però è già  ottimo avere dei propositi chiari.

Come vi vedete tra cinque anni?
Stiamo lavorando a un progetto un po’ Kraut/Dubstep e anche drone. Ma rigorosamente in italiano!