Opposizione partecipativa del rock. Inchiodato davanti alla TV, immerso nel mio personalissimo “trip suburbano da salotto” guardo assuefatto le immagini e mi tengo informato su tutti i prodotti per le perdite femminili, quelli per combattere la stitichezza (con la bionda popputa così innamorata del bifidus essensis) e vari ameni “tricch’e’ballacche” al sapore di spazzatura. Spengo il televisore. Accendo lo stereo. Dentro c’è il debut dei Wolfmother e quella che esce dalle casse è una tempesta elettrica di vento.
Questo gruppo proveniente dall’Australia sarà presto sulla bocca di molta gente. L’attitudine musicale è di quelle che lasciano senza fiato come una martellata al centro della schiena. Seguendo in parte il discorso hard dei Datsuns, la frenesia degli At The Drive In e l’impeto allucinogeno dei primi Queens Of The Stone Age, i Wolfmother riportano sulla scena un rock d’impatto fatto di schitarrate di marca Grateful Dead–Led Zep e giri di basso straordinariamente punk.
Psichedelia, progressive rock, organetto farfisa che spunta di tanto in tanto e un baratro infinito di cenere. Briciole argentate che cadono dal soffitto e lucenti frammenti di ricordi che evaporano dall’inferno. Benvenuti nell’infuocato cumulo d’emozioni che presto vi brucerà lo stomaco.