Da sempre autore non allineato, come se la fine dei Velvet e la diaspora dalla Factory in generale gli avessero finalmente concesso la più ampia e desiderata libertà d’azione in campo musicale, rimanendo però sempre a contatto con le nuove tendenze succedutesi nell’arco dei decenni, essendo cercato pure da queste, a volte inserendosi in esse, plasmando sempre di più l’aurea di un asceta oramai metafisico al di fuori di ogni luogo e dimensione, perché il tempo nei suoi confronti ha agito come un modellatore di un mausoleo vivo e presente, se può passare questa locuzione che in parte ne idealizza la portata artistica, eccoci dopo dieci anni dall’ultima volta alle prese con nuove canzoni di John Cale.
Questo “Mercy” dal titolo premonitore è forse il testamento attuale di un’epoca (post) auto-criminale della nostra umanità a cui solo a persone così austere e sopra ogni disciplina morale come il nostro viene data e concessa la possibilità di poter chiedere il perdono, a titolo universale, per tutte le nefandezze commesse; Cale si nutre di questo afflato ecumenico, ponendo i limiti e le circostanze per coinvolgere all’interno di questa sua nuova versione anche ricordi della musa Nico in “Moonstruck”, che dall’al di là possa portargli conforto (Please console me/ yes please hold me/I have come to make my peace) piuttosto che riflessioni sul tempo che passa e sulla fragilità delle nostre esistenze nei confronti di un immanente destino a cui possiamo solo appellarci ma non confidare (“Story of blood” cupa e messianica nella sua durezza che le backing vocals di Weyes Blood appunto cercano di lenire).
Ma non contento dell’azzardo del messaggio, musicalmente osa ancor di più spiazzando il devoto fan e chi solo avesse una percezione ereditata diciamo dell’ex Velvet, declinando le corpose liriche all’interno di un universo elettronico straniante e stupefacente, in atmosfere rarefatte, lente ed oscure, compiacendosi della collaborazione di vecchi e nuovi talenti (Actress, Lauren Halo, Animal Collective, Sylvan Esso) riuscendo in un colpo solo a proporre qualcosa di moderno e paradossalmente del tutto adeguato alla sua versione da 80 enne alive and kicking.
“Mercy” introduce Cale all’interno del modo digitale della notte, facendone una specie di cavaliere che con la sua voce ieratica e profetica accompagna suoni alternando avanguardia (“Marilyn Monroe’s Legs (Beauty Elsewhere)”) , ballad elettroniche (“Time Stands Still”) , ritmi in generali lenti e parcellizzati, come se per tutta una vita avesse aspettato questo decennio per imbastire le sue romanze in un contesto sfuggente e straniante come questo tipo di infrastruttura elettronica propone di fatto; poi, ognuno lo fa a modo suo, e spesso questi appunto cavalieri solitari, non più giovani ma comunque inquieti, danno ai nuovi suoni un contorno personale ma del tutto appropriato, vedasi per esempio Kurt Wagner nella sua visione quasi nu soul del recente “The Bible”.
In “Mercy” ad esempio, gran parte delle canzoni hanno la pregevole capacità di incastonare la voce, baritonale ma capace di raggiungere un alto livello empatico, in cui non sembrano esserci assolutamente la necessità di ulteriori ripassi, in un lavoro immagino di post produzione complesso e ragionato, prendiamo ad esempio l’inizio di “Everlasting Days” con i Collective che strutturano una ballad che non sarebbe dispiaciuta ai Massive Attack più asciutti, leggermente marziale ma con Cale addirittura al contro canto, grande interpretazione e forse migliore canzone del gruppo.
C’è dell’altro, non c’è solo il senso di abbandono alle partiture digitali, c’è un’anima devota alle percezione sensoriale, una intensità nell’espressione dei sentimenti che potremmo definire quasi romantica nel più vasto senso del termine, verso la vita e le sue sfaccettature misteriose, che per certi versi ricorda nella forma musicale e nell’ispirazione più remota certe cose dei mitici Blue Nile (“Noise of you” e “Not the end of the world” su tutte, con frasi come queste “With the camels standing senseless/From driving through the night/Not so strong and not so fearless/
It’s not the end of the world tonight”) , questo accostamento forte e doveroso verso il senso nascosto delle nostre percezioni, così potente che a volte questi suoni andrebbero misurati e fruiti a piccole dosi e in certi momenti, quando si ha bisogno di un vero ascolto.
Un vero ascolto che queste canzoni di “Mercy” meritano e promettono dall’inizio alla fine.