Chi si aspettava una sorta di revirement da parte di Corgan e soci rimarrà nuovamente deluso.
Anche questo atto secondo messo in piedi dalla compagine statunitense non si discosta dalle precedenti uscite e mantiene, in effetti, la via tracciata soprattutto con il primo episodio di quest’opera e che vedrà la successiva conclusione con la pubblicazione di una terza e ultima tranches di brani.
E, dunque, dopo una prima sessione decisamente spiazzante per la maggior parte del minutaggio, in realtà, questa parte centrale di “Atum” ci riserva una sorprendente quanto inaspettata sorpresa che si dipana nel corso delle undici canzoni, a partire dall’iniziale “Avalanche” con il suo avvio “bambinesco” e che, inizialmente, mi ha fatto rivivere più di un brivido pensando a quella avvilente “Hooray!” del primo capitolo. Fortunatamente il brano riesce a prendere una piega interessante, specie nel finale.
Pur mantenendo il leitmotiv avviato con il nuovo corso, la band di Billy riesce senza dubbio a tirar fuori sonorità electro pop che con “Neophyte” raggiungono un buon livello di appagamento, accompagnato dalle note wave di “Every Morning” e da quelle earworm di “To the Grays”.
Il pattern pop viene in qualche modo disinnescato dalla presenza di episodi rocciosi che già dalle note heavy metal un po’ “naif” del primo singolo “Beguilled” – rilasciato prima ancora de “Atum – act. I” – lasciano il segno, direi più che decente, aprendo rigidi solchi rappresentati da un potente e convincente hard rock con “Empires” e da un accigliato industrial, di matrice Marylin Manson, contenuto in “Moss”.
Insomma, questo middle season si muove su territori variegati mantenendo comunque quelle atmosfere che oramai il buon ci ha abituato. Questi sono oggi gli Smashing Pumpkins, una band che ha deciso di seguire le visioni e le immaginazioni del suo deus ex machina. Non dovrebbe, quindi, a questo punto meravigliarsi di ascoltare una sorta di divagazione prog “pop” in “The Culling”, tra le migliori a mio modo di vedere, che a tratti ricorda il sound di stampo Porcupine Tree.
Inclusi nel pacchetto anche le classiche ballad che non dovrebbero mai mancare in un disco di tal specie. Una dolce malinconia tende la mano al sound e ai cori di “Space Age” mentre l’imprevedibile e mesto taglio acustico della closing track “Springtimes” – altro brano tra i migliori – cala il sipario dietro un buon album.
Prendere o lasciare, è una questione, tra le più classiche, tra dentro e fuori. Se si decide per il dentro vuol dire che ci si è spogliati dalle vesti di fan, quantomeno di quelli che seguirono le primipare “zucche”. Il che, non deve esser visto necessariamente come un fatto negativo… è solo un’altra partita da giocare, sebbene con le stesse pedine. A voi la scelta.