“V” crea uno spartiacque nella produzione della nostra preferita e sconosciuta orchestra mortale, un album dai connotati non immediatamente comprensibili, abbastanza distante da quanto ci si potesse immaginare essere il naturale sviluppo del precedente “Sex and Food“, ma che forse inquadra più di ogni altra hit il vero modo di interpretare la musica da parte di Ruban Nielson, più proteso a cercare la sua personale collocazione di songwriter che ad ambire a qualche sentore di successo, tra l’altro meritato.

Credit: Juan Ortiz Arenas

Le caratteristiche stesse dell’album con 14 canzoni dai tempi anche lunghi con diversi strumentali giocano infatti a confondere le idee, la stessa copertina si fa apprezzare per essere ambigua, ispirando una situazione di terrore e pericolo ma anche di calda a morbida vicinanza cromatica e sensoriale, che si insinua nel tentativo di rendere un’affettuosità animale.

In effetti, ad un primo sommario ascolto, potrebbe sembrare un lavoro quasi di passaggio forzato, spesso sorge il dubbio di trovarsi di fronte a “b side” (“Drag”, “The Widow” ma altre) con la sensazione di aver voluto inserire anche gli scarti di una fase ispirativa meno nobile, il tutto permeato dal tono apparentemente dimesso della produzione, il classico suono Unknown Mortal Orchestra, come fossimo costretti ad ascoltare la band dietro ad una porta chiusa, questo filtro “lo-fi” che stringe la gamma della frequenza d’ascolto e rafforza il gusto di un minimalismo compiaciuto, che fa tanto omaggio anni 70 ma che invece rende al meglio il sottile lento dipanarsi dello scorrere di queste canzoni.

Diciamo che “V” ci invita ad isolarci per una buona ora e ad entrare in una specie di continuum narrativo degli ultimi 4 anni della vita di Nielson ,come se fossimo, noi ascoltatori e fan, anche spettatori delle sue riflessioni musicali pacate e domestiche, un’esempio genuino e intimo di un rapporto canzone-fruitore che esula dalla ricerca della sorpresa e dall’entusiasmo, ma che ha a che fare con una forma di sincerità reciproca e condivisa.
Sarà che il tutto è stato prodotto e chiaramente ispirato dalla permanenza del leader durante i periodi di lockdowns a Palm Spring e nella Hawaii a casa del fratello, luoghi non proprio fonte di preoccupazioni ed ansie, per cui non poteva uscirne che una rassicurante ventata di leggera west coast e beachy mood che crea i miscugli classici fra pop anni 80, psych suol e un pizzico di rock steady che anche in “V” rimangono appiccicati alla nostra percezione della band ma che come dire qui vengono dilatati oltre misura rispetto al solito.

Certo non occorrono ascolti ripetuti per capire che alcuni brani emergono più di altri, “Layla” (grande assolo di chitarra di Nielson) “Nadja” “That Life” ad esempio, mentre invece è assolutamente consigliato riprendere in mano più volte l’intero album, che rimane dentro il solco di un preciso contesto di transizione, per farsi conquistare dal mood familiare delle architetture sonore in alcuni tratti quasi banali o da sottofondo da chiosco in spiaggia caraibica, disarmanti nella loro semplicità e singolarmente trascurabili, mentre se si lascia andare la musica in soffusa ed innocua heavy rotation, diventa fonte di un mood crepuscolare coinvolgente, che ci fa entrare, piacenti o meno, nella vera dimensione artigiana di un artista vivo e rilassato.

Può piacere ma anche essere noioso, lo si apprezza in toto o niente, prendere o lasciare, non si può neanche dire, come in casi analoghi, che qualche sforbiciata sarebbe servita a rendere “V” più accattivante, perché è un’opera che non si addice al giudizio d’impatto o a valutazioni circonstanziate, è una specie di anomalia da cogliere, se si vuole, per il verso giusto, fatta per non illudere e non inseguire maggior consenso, che contiene canzoni sincere che si prestano ad accompagnare in modo leggero e desiderato qualsiasi momento in cui se ne ha bisogno.