L’anno appena trascorso è stato estremamente prolifico e fruttuoso per uno dei personaggi più versatili ed interessanti del panorama elettronico italiano: Gabriele Panico aka Larssen.
Il Dj e Producer pugliese ha dato alle stampe ben due nuovi lavori usciti con la meritevole label capitolina Pocket Panther Records.
Il primo a vedere la luce, “Soundcarraldo”, è uscito lo scorso marzo a nome Gabriele Panico.
Le 5 tracce, composte nel corso degli ultimi anni per essere eseguite in diversi festival di musica contemporanea e sperimentale, rappresentano un’ottima panoramica sull’evoluzione del suo linguaggio espressivo dalle molteplici sfaccettature.

Nastri magnetici e strumenti acustici vengono rielaborati e processati mediante moderne tecniche digitali e di sintesi granulare mentre le improvvisazioni radicali di matrice jazzistica si fondono con delle glitchate tessiture ritmiche.
Il secondo, uscito nel mese di maggio, è stato “Pninism”, uscito con il moniker Larssen, potrebbe essere classificabile sotto una ipotetica voce “Bass Music a 360 °”.
Si passa dall’Uk Garage di “Me to Manopola”, “Trespassing Tito” (ma si sarà  intrufolato in casa del maresciallo?) e “Subsinqo” al power dub di “Basso Dirige Nos” (comparso anche su una compilation di XL di Repubblica) e “Unfame Majesty” per arrivare ad episodi ancora più deep oriented e tipicamente dubstep come “Elephant” e “Western Suckers”.
A metà  lavoro troviamo “Ligeti” (nome omen) a fare da trait d’union almeno ideale tra le due anime dell’artista salentino.
Ascoltando l’intero lavoro, tra le altre cose, salta all’orecchio la peculiarità  dei suoni utilizzati, non riconducibili ai milioni di presets disponibili in rete e dei quali magari chiederemo qualcosa all’interessato in sede di intervista qualche riga più in basso.
Tutto ciò condito da Dj set e Live Set in tutta Europa.
Dal Koko di Londra al Ripperton di Brighton, passando per le varie serate nei Balcani (in particolare l’Albania, terra dirimpettaia della sua Puglia ed a quanto pare molto ricettiva nei confronti delle nuove tendenze musicali e non) ai festival

Medimax, South Vibes, Streamfest alla direzione dell’Orchestra Popoli fino alle colonne sonore per “Madein Albania” di Stefania Casini (prodotto da RAI cinema), “Ritals” (fresco vincitore di un premio in Francia) e “Pinuccio Lovero ““ Yes I Can” da poco presentato al Festival del Cinema di Roma. Senza dimenticare, poi, il suo link con il network inglese Nasty Fm e le molteplici collaborazioni con radio locali.
Vista la mole d’impegni di Gabriele e le vicissitudini varie che hanno fatto si che non riuscissimo ad incontrarci negli ultimi mesi, ciò che segue è il frutto di una sorta di sbobbinatura di varie sedute di chat su facebook e di qualche e-mail, quindi saltiamo i convenevoli e passiamo direttamente alla chiacchierata.

Ciao Gabriele, complimenti per gli ottimi lavori che ci hai proposto negli ultimi mesi. Ti muovi su fronti musicali apparentemente distanti mantenendo molto alto il livello. Come spieghi questa tua schizofrenia creativa e come riesci a portare avanti contemporaneamente i due progetti?
Semplicemente assecondando le diverse esigenze espressive. Nel caso delle mie produzioni come Larssen pesa molto il mio amore per i dischi. Molte tracce nascono anche con la precisa idea di collocarle in determinate direzioni di un djset o in un live, dove vanno incontro ad un remixing o a una dub version. Detto ciò, non mi colloco a metà  tra un’area e l’altra. Tutt’altro! Mi colloco agli estremi di entrambe. Come compositore non mi definisco ne un neoclassico ne un minimalista. Amo la forma e la sua trasfigurazione. Come dire”… se si sopravvive alle prime battute delle mie suite”… è tutta discesa! Come producer e dj non sono uno con l’hard disk nello zaino. Prendo delle decisioni molte ore prima del set. Durante questo, lavoro sull’aderenza tra quello che ho scelto e chi mi ascolta.

Come sei passato dalla musica accademica alla musica da club che spesso, non sempre erroneamente, viene considerata musica leggera con accezione negativa?
Non sono sicuro di aver fatto un salto, da una sponda ad un’altra. Coltivo composizione e producing, due cose differenti ma idealmente molto simili. Chiaro che le tecnologie hanno avvicinato – per sommi, sommissimi capi – le due attività . Ma una distinzione resta ben chiara, se si ha voglia di dialogare con termini chiari a tutti. Il compositore è uno che compone: mette, cioè, assieme vari elementi. Il suo lavoro deve essere rintracciabile, metodologicamente ed eticamente, perchè va a inscriversi in un lungo segmento di linguaggi che, nel corso di almeno cinque secoli, hanno tracciato questo sentiero. Dal punto di vista metodologico, un compositore è costretto a studiare composizione. Un mondo parallelo che ti porta a scoprire e ingerire quantità  enormi (non deve far paura, è estremamente affascinante la materia!) di principi, leggi e linguaggi di altri autori e scuole che ti permettono di avere una conoscenza di come si siano strutturati nel corso degli anni i vari linguaggi. Non è solo per cultura personale ma è cultura del proprio lavoro. Insomma, questi benedetti quattro suoni è da centinaia di anni che si relazionano in diversi modi e quasi ogni volta parte qualcosa che schiude un piccolo universo. Se ti trovi a lavorare con questi quattro suoni ritengo che, come minimo, tu sappia a che cosa si va incontro con un percorso X e che cosa rischi di ripetere con il percorso Y. Eticamente, invece, un compositore non ha un pubblico di riferimento ma tende, in fase di scrittura, ad idealizzare un mezzo espressivo che permetterà  di far ascoltare la sua opera (orchestra, solisti, ensemble da camera, acusmonium o altri impianti tecnologici in caso di musica elettroacustica). Personalmente, ritengo, che le principali differenze con il lavoro di un producer risieda in due fattori: le componenti sonore da mettere in relazione (un compositore non può porsi limiti, un bravo producer se li costruisce) e l’immediatezza (un compositore non si incunea in nessun settore o genere e per questo non deve cavalcare alcun tempismo, un producer fa i conti costantemente con gli umori di un determinato suono più o meno presente o diffuso, anche del passato).

Nel tuo percorso formativo e di studi hai approfondito la conoscenza di compositori come Varese, Nono, Stockhausen, Berio e compagnia. Che rapporto hai con la cosiddetta elettronica colta contemporanea?
E’ una totale dipendenza. Credo sia abbastanza normale, del resto. Mi piace la musica elettronica e il fondamento e gli approdi più radicali di questo approccio risiedono nelle ricerche accademiche e sovra-accademiche. L’unico modo di scrivere musica è indagare sulle relazioni formali, figure musicali, armonie, oggetti sonori. Proprio questi ultimi sono il primo elemento che accomuna l’elettronica definita colta a quella dei club e dei suoni di strada, arricchita da quel centro di gravità  che è il ritmo mutuato dal rock. Per intenderci: il campionatore, l’MPC, i controller, i pads sono frutto di esperimenti, non dell’urgenza. Sono rivoluzioni strumentali che derivano dalle ricerche ““ spesso anche senza fortuna – di pionieri accademici. Il dimensionamento di questi aggeggi per il mercato ce li ha fatti arrivare a casa. Molto dopo, però. Un nesso, con le accademie, c’è sempre. Non credi?

Concordo, e, conoscendoti, penso che per avvalorare questa affermazione si possa citare l’esperienza “London Sinfonietta Orchestra Meets Warp” progetto nel quale un orchestra classica si cimenta con l’esecuzione di composizioni elettroniche senza l’utilizzo alcuno di macchine.
Insisto sull’argomento dando spazio ad una mia particolare fissazione e ti chiedo cosa ne pensi di un’etichetta come la tedesca Raster Noton che ha concentrato quasi tutta la sua produzione sullo sfruttamento dell’errore digitale, del cosiddetto glitch, ed ha forgiato un suono così personale da renderlo inconfondibile?

Il progetto (tour e disco) della London Sinfonietta alla prese con il “repertorio” della Warp Records rappresenta, per me, uno dei più straordinari momenti musicali degli ultimi trent’anni. La tappa italiana l’ho seguita per radio e sto ancora cercando di rintracciare l’impreparatissimo inviato che ““ stranamente e incredibilmente – Radio 3 buttò per la diretta di quel concerto. Per quanto riguarda la Raster: credo abbia avuto un’importanza fondamentale per la maturazione e diffusione di alcune sfaccettature particolarmente rigorose della musica elettronica. Assieme a Pole, Mira Calix“… certo super design sonoro ha rivoluzionato e, in qualche modo, riqualificato dal punto di vista sonoro anche gli ambienti della dance. Anche per loro, però, comunicare di più con gli umori del dance floor li ha resi meno autistici. Il risultato di questo scambio? Villalobos incide tracce che se non avessero un grande appeal sonoro risulterebbero forse un pò stucchevoli. E Carsten Nicolai si “scioglie” un pò firmando anche dei djset molto interessanti.

Nelle tue produzioni utilizzi linguaggi diversi, ognuno di loro e portatore e veicolo di contenuti e messaggi diversi?
Teorizzo, costruisco e pratico diversi linguaggi e metodologie musicali. E quando ho tempo, li metto in discussione. Poi quando risolvo, esco a comprarmi dei dischi, libri e riviste musicali e qualcosa da mangiare. Non credo nei contenuti extramusicali. Non in una disciplina così complessa e al tempo stesso immediata come la musica. Cioè, se dobbiamo essere divulgativi, penso che già  le leggi che animano questa disciplina siano già  esse stesse dei contenuti. Considero la musica come un’attività  non perfettamente umana. I rapporti tra altezze, simbiosi figurative e armonie sono dimensioni sovrumane. La musica occidentale ritengo abbia un vantaggio fondamentale su quella del resto del globo: ha speso molte, molte energie nel codificare parametri e architetture sonore. Questo le permette di agire – a livello creativo – da più punti di vista. Terminando questa ricognizione sui mondi musicali – che non mi hai chiesto, lo ammetto – direi, però, che l’occidente spesso è morto proprio quando si è rinchiuso eccessivamente in queste coordinate di codifica e ricerca, ecco che viene in soccorso la musica giapponese, le afriche, il medioriente. Le periferie, diremmo noi da qui, apportano costantemente il giusto carico di mistica, poesia, umore alla piattaforma occidentale.

Lasciamo Dr Jekyll ed incontriamo Mr Hyde (o viceversa?). Credi che la cosiddetta Bass Music abbia in Italia delle radici proprie che le permettono di svilupparsi, se non completamente autonomamente, perlomeno con delle caratteristiche territoriali proprie rispetto alla madre terra Inghilterra?
E’ successo con la techno e con l’hardcore punk. Non vedo perchè non possa ripetersi (cosa che già  sta succedendo) con la declinazione bass. L’importante è slegarsi dai clichè produttivi ed esecutivi. I softwares non credo stiano aiutando”…

Sei più conosciuto in UK o in Italia, dov’è che raccogli maggiori consensi nelle tue serate e con le tue produzioni?
Mah, secondo me sono abbastanza sconosciuto in entrambi i paesi. Non che con il mio lavoro cerchi una qualche forma di fama, non è questo che mi interessa. Il mio obiettivo è quello di riuscire a lavorare con sempre maggiore continuità : è questo che ti permette di avere uno smalto e una lucidità  elevati che, a loro volta, consentono di prendere delle decisioni musicali più a fuoco. Scrivo, produco e registro liberamente. Mi preoccupo di scegliere un canale di diffusione della mia musica solo successivamente (un festival, un disco, un djset, un mix). Per salvaguardare un flusso produttivo ed esecutivo è auspicabile la continuità . Che è ben diversa dall’iperproduttività “…

Andando in giro per il bel paese a fare serate come Dj ed avendo allo stesso tempo di fare queste esperienze anche in Olanda, Germania, Inghilterra…cosa pensi della club culture in Italia? Su quali differenze pensi sia interessante riflettere?
All’estero riscontro una maggiore apertura: c’è più aspettativa per il flow di un set e non troppo per il genere. In Italia dipende dai posti. Torino e Firenze sono in netta ascesa. La Puglia è una centrale a combustione sonora, Roma accoglie centinaia di show diversi ogni anno, anche se i local spingono solo d’n’b e derivati. Comunque, le cose che Benedetti, Anibaldi, Lory D e Passarani hanno fatto sono ancora tangibili (come eredità ) nei club capitolini.

Domanda secca. E’ necessario appartenere ad una scena?
No. Sebbene sia auspicabile non essere soli nell’universo, appartenere ad una comunità  con cui si possono condividere interessi e direzioni per un suono o per un’estetica di esso è solo una delle più grandi fortune che ti possa capitare, non è un elemento indispensabile. E’ necessario avere dei negozi di dischi. Aperti. E ben forniti. E’ necessario avere la possibilità  di ascoltare e discutere durante l’ascolto.

Il 19 Ottobre hai fatto tappa a Catanzaro, mia provincia, raccontami com’è stata accolta la tua proposta?
A Catanzaro è andata bene. Sono stato invitato dal nuovo network Radio Popolare per il tramite di un musicista che stimo e con cui scambio molto: Leastupperbound. La redazione di RPC è gente seria, in gamba. Molto entusiasmo trasmesso dal fondatore Antonio Argentieri e tutta una squadra che lavora sulla qualità  dei programmi musicali e su un’informazione pulita, senza filtri. Detto questo, io ho fatto due conti in quei giorni: ho conosciuto e incontrato persone valide, con grande entusiasmo e lungimiranti. Era una domanda sulla città ? Le città  italiane sono tutte difficili, la cocaina se le sta mangiando una per volta.

Perchè scegli di fare i tuoi Dj set con i vinili e non con il digitale? Sei un nostalgico?
Per vari motivi. Non sono ne un nostalgico ne un feticista. Per lo più, dipende da faccende legate al mix e al suono, alla risposta fisica del lavorare coi vinili. In primis, ti direi il mix. E poi il discorso dei plates, fuori da qui ““ per certi suoni ““ il formato vinile anticipa di molto le versioni cd e digitali. Spesso, per le uscite meno commerciali, è il solo formato disponibile. Non è cambiato nulla. Da trent’anni. Detto questo, è chiaro che i voli low-cost impongono scelte ingenerose sui formati. Uso anche il digitale, soprattutto quando ho in mente un lavoro di remix live, solo che evito di portarmi appresso schede audio, controller e convertitori vari che peserebbero quanto 30-40 vinili, a quel punto porterei questi.

Chiaro. Cambiamo argomento. Come affronta la produzione di una nuova traccia Larssen? Quale metodo di lavoro usi, con quale strumentazione lo sviluppi e, nei limiti del raccontabile, che trucchetti segreti ci puoi svelare?
Seguo varie strade, collaudate. Se parto dal beat, uso in prevalenza drum machine e groove box, su cui innesto synth e processi. Alcune volte in modo più live, altre volte per strati, tramite sequencer. Poi riverso tutto in digitale. Se suona ancora tutto troppo “computer” gli do un aumento di densità  sonora tramite un ulteriore riversaggio su nastro (che ne abbassa la risoluzione quanto basta).

Il nome Larssen viene visto in Europa come quello di uno dei maggiori ambasciatori del suono Bass italico. Come vedi tu lo sviluppo della scena Bass europea e che opinione hai delle cosidette derive post del dubstep?
Queste derive sono contenute già  nei semi originari di questo suono. Parto dalla grande premessa con cui è maturato questo suono. Il dubstep, dal 2000, ha raccordato una serie di istanze elettroniche: lo UK dub, il garage e quell’ibrido tra hip hop, jungle e attitudine techno in perenne mutazione che è il grime. Chiaro che da un bacino del genere le strade di evoluzione non possono che moltiplicarsi esponenzialmente. Dal suono tipicamente Croydon (Coki, Cotti, Hatcha) al DMZ (Mala, Loefah, Deep Medi) a Bristol (Pinch, Peverelist, Appleblim). Si affianca successivamente il superfat di Dub Police, Sub Soldiers e la produzione di white label diviene inarrestabile: remix e recut di anthem reggae su beat molto pesanti e version più orientate al garage. Nel frattempo, grazie a label ispiratissime probabilmente perchè gestite dagli stessi dj e producer, si creano delle bolle d’aria poco qualificabili come Burial, Shackleton“… che apriranno decisamente le porte alle astrazioni dance di Hotflush, Hessle Audio, Hyperdub. Queste piattaforme sanciscono un legame definitivo con le famiglie “deep” tedesche, francesi e olandesi. E’ evidente che non parliamo di un genere, ma di un suono. Le radio recitano un ruolo fondamentale, da cui le stesse etichette pare dipendano ciecamente: Rinse FM mescola nelle sue 24 ore le basslines sovraesposte con break frammentati e mix che per il continuum e il flusso regolare (nell’insieme) riportano alle fusioni-incomprensioni di techno, house e hip hop dei 90’s. UK Funky, 4×4, post-garage”… Per un attimo si risente quel punto originario che certe crew come Bugz In The Attic (prima) e Dusk & Blackdown (poi) avevano raggiunto. L’estetica dubstep, nel frattempo, si è caricata anche di quell’abstract hip hop che, ammettiamolo, non trova più posto nei cataloghi di oltre oceano (nonostante il grande lavoro di Jay Dee e Madlib), almeno agli inizi: Flying Lotus, Samyam, Ras G. Nel frattempo, i Sound System britannici sposano la causa di Croydon: Mungo’s HiFi, Vibronics e altri (già  arrivati autonomamente alle griglie a 140 bpm) fondono un roots su dei riddim molto più robusti. Più si va avanti, più il sisma del dubstep mi appare come un pretesto per liberare orde di producer che hanno metabolizzato la Warp, la Rephlex e la Planet Mu (quest’ultima attivissima da sempre, anche dagli albori di questo caos che sto cercando di descrivere) ma svezzati dalle radio pirata reggae londinesi. Uno sguardo sempre maggiore all’Africa (DVA, T.Williams, Lil Silva), a Detroit (Scuba, qui entra molto anche Berlino), Chicago (Paul Woolford) e al 2step ha fatto il resto. La Swamp 81 di Loefah, la Night Slugs, oltre al grande ritorno della R&S (che ci ha regalato una techno nuova di zecca come Untold e Blawan) ne sono un gran bell’esempio. Questo “post” è ancora nelle mani di pionieri come Zed Bias, Mark Pritchard, Kode 9, Martyn e la sua 3024, i due Instramental, chissà  chi dimentico”… Probabilmente sono le radici che si toccano, ancora di più delle evoluzioni. Forse è il caso di citare la deriva patinata che ora noi addebitiamo ai massacratori di palle e timpani americani ma che in realtà  inizia dalle esigenze di introdurre il suono dubstep nei set dnb della stessa Europa. Curioso anche questo: il drop del dubstep si afferma velocemente anche per le esigenze del dancefloor di rompere la monotonia di otto ore di set techno o dnb. Ma in parte, ne viene fagocitato. Per me è la parte meno interessante della faccenda, perchè basata sulla potenza sommaria. Una specie di heavy metal elettronico. Se ci pensi è fisiologico. L’elettronica nasce sempre, in ogni sua sfumatura, dal fascino per un suono (il funk per la techno, il jazz per l’house, il tribalismo per il dub) e se ne fa carico esplorandolo in ogni suo meandro. Poi subentrano altri fattori. Meno legati all’esplorazione di cui sopra, meno legati alla musica direi. E per questo non affare nostro.

Leggendo la tua “biografia” ho visto che hai condiviso la consolle con tantissimi grandi artisti. Chi, tra i tanti, ti ha impressionato maggiormente?
Come live, i Mouse On Mars. Durante il loro tour di “Audioditaker”. Assolutamente fantastici. Fenomenali. Come djing ti cito un set più recente: ho avuto il piacere di suonare allo Streamfest, in Salento. Dietro ai piatti c’erano due lords: Tom Middleton e Mark Pritchard“… Esperienza bellissima peraltro, perchè ha radunato un esercito di amici e divulgatori di basslines di lungo corso. Bellissimo trovarsi tutti lì. Bellissimo.

A cosa stai lavorando in questo momento?
Come Gabriele Panico, sto scrivendo per alcuni nuovi progetti di sonorizzazione dal vivo. Dopo il lavoro su Chris Marker”, commissionato dal festival Avvistamenti, mi sono rituffato sul mio progetto su De Seta (implementando il live che ha inaugurato la scorsa edizione di Cinema del Reale) e che sarà  ospitato nel festival CineMa Live e dall’Università  di Cosenza. Sto approntando le musiche originali per un nuovo lungometraggio e per una serie di spot. Poi”… sto cercando una giacca nuova per un appuntamento molto, molto, molto importante a Vienna per maggio. Come Larssen, a breve è in uscita una nuova tune contenuta in un’incredibile compilation prodotta da Mixology (Andrea Mi, fra l’altro, è l’artefice del raduno citato in precedenza). Per la Pocket Panther uscirà  a breve un nuovo ep con sorprese niente male nei featuring. Sarà  poi la volta di alcuni remix ufficiali per due nomi molto, molto stimolanti.