Abbandonate definitivamente le atmosfere indie-folk di un tempo, Devendra Banhart si affida a tastiere e sintetizzatori per costruire il mood del suo nuovo album, “Flying Wig”. Prodotto da Cate Le Bon, la nuova fatica del singer di Houston galleggia fra una sorta di cupo intimismo e l’elettronica dal sapore di revival degli ultimi anni. Del resto, “Twin” e “Sirens”, primi due singoli estratti, ci avevano già fatto intuire quelle che erano le intenzioni dell’artista americano. La prima, infatti, si muove graziosamente su territori quasi Davidbowieani – tanto cari alla stessa Le Bon mentre la seconda è figlia di quella malinconia ancestrale che da sempre accompagna i lavori del vecchio Devendra. Fin qui tutto bene, si dirà. Più o meno. Già, perché il resto dell’album, purtroppo, si incanala in un sentiment fin troppo monotono e con ben pochi guizzi degni di nota.

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Uno di questi, però, è rappresentato senza ombra di dubbio da “Feeling”, l’open track. Sei minuti e diciannove secondi di atmosfera “arty” che ci immergono nella galassia creativa del tandem Banhart-Le Bon. Anche “Fireflies” riesce a brillare di luce propria in mezzo a tanti pezzi un po’ più fiochi ed anonimi. Quest’ultima, infatti, possiede uno dei ritornelli più accattivanti di “Flyng Wig” ed è costruita intorno ad un giro di chitarra fra i più interessanti del lotto. I problemi iniziano a sorgere quando ci si aspetterebbe quel decollo definitivo che, ahinoi, non arriva mai. Prendete il popettino insulso di “Nun”, per esempio. Oppure il sound iper-prodotto di “Sight Seer”. Buone canzoni, per carità. Ma nulla di trascendentale.

L’impressione, almeno per chi scrive, è che in alcuni brani si sia osato meno di quanto si sarebbe potuto. Come nel caso di “May”, o della stessa title-track. “The Party”, decima ed ultima traccia del disco, prova a far risalire un po’ la china ad un album che, come già accennato, si perde nel grigiore sciapito di alcune idee che potevano (dovevano) essere sviluppate in maniera migliore e che invece restano lì, a fluttuare tra una nota e l’altra di un lavoro che raggiunge faticosamente la sufficienza.

Se non si tratta di una caduta libera, poco ci manca. “Flyng Wig” è un’opera noiosetta, monocorde, che si stagna ai confini del concettuale, restandone impelagata. In definitiva, per Devendra Benhart si tratta di un ritorno dignitoso. Ma nulla di più.