New wave e cinematografia, John Carpenter e Stewart Cowley, c’è tutto un universo cosmico nell’album omonimo dei LACOSA. Più che di un canonico disco d’esordio, infatti, si tratta di un progetto artistico dalle ampie vedute, confezionato da quattro artisti – tre dei quali già membri dei Soviet Ladies – che hanno messo tutte le loro esperienze, musicali e di vita, al servizio dell’album in questione. “LACOSA” può essere paragonato ad una sorta di diario sonoro in cui Walter Zanon, Matteo Marenduzzo, Luca Andretta e Paolo Trolese (questi i nomi dei componenti della band) si sono lasciati trasportare dalle loro influenze, passate e presenti, realizzando nove brani pieni di richiami ai cult movies di fantascienza di fine Anni Settanta, inizio Anni Ottanta.

Credit: Francesco Reffo

L’epicità spettrale di “Words”, traccia numero due dell’album, rappresenta, forse, l’esempio più calzante della strada imboccata dai LACOSA nel loro progetto. C’è tutto un campionario di emozioni nella decadenza a tinte crepuscolari su cui gira il pezzo (magistralmente cantato da Zanon). Risulta alquanto difficile, tra l’altro, non farsi entusiasmare dalla solennità dell’intro. È un mondo variegato quello dei LACOSA, e si sente. Anche in brani come “Nagger”, in cui l’impronta elettronica è decisamente più incalzante.

“LACOSA” è un album dove si percepisce, in maniera piuttosto netta, tutta la passione di Marenduzzo e compagni per le sette note. Prendete l’atmosfera eterea di “Oaks”. Oppure il guitar touch che fa da motore a “Telemachus”. Sono brani in cui si respira, a pieni polmoni, un certo tipo di sound dal respiro più internazionale. Oltre ai luoghi prettamente metaforici e sognanti, i LACOSA si sono fatti influenzare anche da quelli fisici, come le rovine classiche e medievali. Il passato come unica chiave di lettura possibile per provare a capire il presente ed i suoi sentieri insidiosi. “Je Sus” e “Poseidon” sono i due pezzi che chiudono in bellezza un disco che va ben oltre la sufficienza.

Il primo, oltre ad essere stato uno dei singoli (insieme alla già citata, “Nagger”) estratti, sin qui, dall’album, è un (bel) brano in cui la voce di Zanon si fonde perfettamente con uno sfavillante tappeto di synths. Il secondo, invece, ha le stimmate della soundtrack e nei suoi sei minuti (e due secondi) di durata non lascia scampo all’ascoltatore. Nemmeno a quelli più distratti. È un pezzo(ne) a cui è difficile restare indifferenti. La degna, degnissima conclusione di un lavoro che suona maledettamente bene, dalla prima all’ultima nota.

Hanno sfornato un gran disco, i LACOSA.  Una di quelle opere – pochissime, in verità – che riescono a brillare di luce propria poiché dotati di un magnetismo musicale e sonoro che non scende a compromessi, ma che contribuisce a fare della genuinità l’unico tratto distintivo a cui appoggiarsi senza remore di sorta. Musica per palati fini, insomma.