Una bella spruzzatina di emo, un po’ di vecchio, sano shoegaze e delle melodie delicate. È più o meno questa la ricetta (vincente) utilizzata dai canadesi Leave Yourself Alone per il loro omonimo album d’esordio. Si tratta di un disco dalle tinte autunnali, dove la bella voce del singer Ryan Stephenson viene mescolata sapientemente con l’altrettanto gradevole timbro dell’altra vocalist della band, Ellen Kibble.
Sembrano dei veterani, i Leave. Eppure, sono al loro primo (vero) giro di giostra. Ascoltando le otto tracce che compongono la primissima fatica discografica del gruppo di Vancouver, appare quasi impossibile non esaltarsi per le armonie sghembe su cui girano la maggior parte dei pezzi. Sono brani dal retrogusto epico, quelli dei Leave Yourself Alone. “Goodness Gracious”, per esempio, è una di quelle canzoni dove a spadroneggiare sono i riff “orizzontali” creati dalla chitarra di Stephenson.
“Goodness Gracious”, tra l’altro, è anche la traccia d’apertura dell’album. Un inizio alquanto scoppiettante, non c’è che dire. Nel ritornello poetico di “Catch Somebody”, invece, le voci di Ryan Stephenson e di Ellen Kibble si fondono in maniera pressoché perfetta, fino a diventare uno strumento ulteriore su cui basare il tappeto sonoro del pezzo in questione. Le otto canzoni che compongono la tracklist di “Leave Yourself Alone” hanno (quasi) tutte una durata piuttosto lunga. Si spazia, infatti, dagli oltre sette minuti della già citata, “Goodness Gracious”, agli otto minuti e tredici secondi della title-track. Non un dettaglio da poco.
Già. Perché a differenza delle opere “usa e getta” che (purtroppo) di tanto in tanto gravitano nel mainstream musicale, il debut dei Leave Yourself Alone non è di certo un lavoro da tenere come sottofondo tra un click e l’altro su Instagram. Ciò detto, l’irruenza di pezzi quali “Race Car Driver” o della stessa, “Hope In A Bottle”, sono lì a ricordarci che si può essere “immediati” pur senza perdersi nei vicoli ciechi della banalità.
L'”highlight” del disco, in tal senso, è la bellissima “I’Am Afraid I Won’t Do Anything”. Si tratta di un pezzo in cui emergono – in maniera decisamente preponderante – tutte quelle peculiarità che rendono i Leave una delle band più interessanti dell’attuale scena alternativa. Dal godibilissimo riff iniziale al (bel) crescendo di voci, che sfuma sul finale come nebbia in collina. “All I See Is Now” chiude più che dignitosamente un album che rappresenta una delle sorprese musicali più piacevoli di questo ultimo scorcio di anno.
Se, filosoficamente, potremmo definire l’autunno come una sorta di stato d’animo, beh, il debut album dei Leave Yourself Alone potrebbe rappresentarne l’ideale colonna sonora. Dovessero continuare su questa strada, non comporterebbe chissà quale rischio scommettere sul successo di una band che appare già perfettamente cosciente delle proprie potenzialità. In definitiva, sbottonandoci ulteriormente, quello dei Leave Yourself Alone è un disco d’esordio con i controfiocchi.