Quello che mi disturba non sono tanto i Kaiser Chiefs che campeggiano sulla copertina dell’ultimo numero di NME.
Casomai trovo insopportabile notare come la legge ‘darwiniana’ applicata alla musica, capace in passato di porre fine a generi o band dalle discutibili qualità , sia di questi tempi dannatamente lenta a compiere il suo lavoro in terra d’Albione.
Se infatti ci addentriamo nella lettura della suddetta rivista ci rendiamo conto come non intenda arrestarsi il flusso di gruppetti inglesi tanto hype e poca sostanza. Ora, tanto per citarne uno, e’ il turno dei The View che suonano come gli Arctic Monkeys che suonano come i Libertines che suonano come i Clash.
L’amarezza cresce allora se mi metto nei panni di un Windmill qualsiasi.
Se penso ad un giovane artista britannico per nulla affascinato dall’ idea di mettere in croce due elementari riff di chitarra scopiazzati chissà dove, di dare sfoggio del suo accento cockney anche quando rutta, di scimmiottare qualche suo brufoloso coetaneo che grazie a 180 secondi di ‘orecchiabilità ‘ sta vivendo i suoi 15 minuti da eroe ‘indie-popolare’.
Cosa riserva per lui la tavola imbadita a festa dell’attuale scena indie ?
In realtà la situazione , anche in una landa desolata e arida quale è diventata la gloriosa Inghilterra , è meno tragica di quel che appare.
Scopro per esempio che esiste ancora un’ etichetta come la Melodic che dislocata in Manchester da asilo a Windmill e ad un’altra folta schiera d’artisti decisamente trasversale all’attuale scena britannica (the Isles, L.Pierre, WFNFC ) e ancora ci sono musicisti come i The Earlies, collettivo da tempo autore di album e preziose collaborazioni (Alfie, Micah.P Hinson, e appunto questa con Windmill), il cui curriculum insomma rivendica un più che dovuto rispetto.
E soprattutto dulcis in fundo abbiamo “Puddle City Racing Lights”, uno scintillante debutto.
Qui l’amarezza di cui sopra, sparisce d’incanto come spazzata dalla più rinfrescante delle folate.
Il vento con il quale il nostro “‘mulino’ accarezza la musica è una piacevole brezza di melodico pop dalle tinte folk e psichedeliche, un contagioso svolazzare di “‘piano-riff killer’ capaci di conquistare gli ascoltatori fin dalle primissime note.
Matt armeggia con il suo pianoforte dall’età di tredici, inevitabile che lo strumento diventi nel suo debutto autentico metronomo di ritmi ed atmosfere. Tasti bianchi e neri dettano parentesi romantiche alle quali non possiamo sottrarre il ricordo del compianto Elliot Smith, alzano ossessivi i toni quando il terreno sonoro diventa terra di conquista del ritornello deputato a girarti in testa per tutto il giorno.
In questo caso non si riesce a rimanere indifferenti a quel drumming incisivo che alla ‘Arcade Fire maniera’ irrompe quasi dal nulla portandosi dietro cori ed aperture orchestrali, retaggio musicale derivato da ripetuti ascolti di indipendenza stelle e strisce. No Kinks, no Beatles o il recente brit-pop quindi, il ragazzo di Newport ha lo sguardo fisso in direzione oltre-oceano, è cresciuto con i Mercury Rev, i Flaming Lips, i Grandaddy, l’immancabile recente scena canadese e a loro, più che ai miti di casa sua, preferisce fare il verso.
Lavori come “Puddle City Racing Lights” riportano all’attenzione l’interminabile scontro, quanto mai d’attualità in Inghilterra, tra produzioni di qualita’ e “prodotti” di facile accesso, tra forma e sostanza. Ancora una volta consola non poco sapere che dietro frangette ultra-cool, spillette colorate, contenuti musicali derivativi al limite del plagio, possiamo ancora trovare una folta schiera di adorabili “losers” capace di raccontarci con estro e romanticismo semplici esperienze di vita comune. Il solo sapere che (r)esistono ci fa sopportare con moderato ottimismo tutto questo piattume