Pare brutto che l’incip che dovrebbe salutare i 15 anni dall’uscita di “Working on a Dream” si basi su un adagio retorico ed abusato, ovvero più che di un sogno parrebbe trattarsi, se non proprio di un incubo, perlopiù di un brutto risveglio.
C’è poco infatti da celebrare in merito a questo scialbo e dimenticabile album di Springsteen, che testimonia come negli anni 2000 abbia assunto una gestione delle uscite discografiche opposta a quella adottata nei decenni precedenti.
Se negli anni ’70 ed ’80 era estremamente parco nelle pubblicazioni ed ogni album doveva avere una struttura tematica e sonora ben precisa, con il doppio risultato di avere i primi 8 album artisticamente inattaccabili e moltissime outtakes di mirabile qualità (tanto da poter regalare una “Because the night” a Patti Smith) e negli anni ’90 si ripresentò nel mercato con pochi album, negli anni 2000 abbiamo assistito ad un numero di album forse eccessivo e di qualità altalenante.
Il presente “Working on a dream” rappresenta, insieme ad “High Hopes”, il parto meno riuscito inerente (non solo) al periodo per ultimo sovra citato, nonostante immagino ci sarà sicuramente parte della fan base di Bruce che cercherà in mille modi di rivalutarlo.
In questo caso sarò costretto ad una bocciatura senza tentazioni revisioniste, come valutai con la disamina di “How to Dismantle an Atomic Bomb” degli U2 (vedi recensione anniversario).
Lodevole è il tentativo di Springsteen di impostare, anche se solo in parte, l’album su sonorità ed atmosfere inedite ovvero mood sonori che potessero chiamare in causa Brian Wilson, Roy Orbison e la sua anima soul.
Rispetto però ad un altro album non capito da molti, ovvero l’ormai inatteso capolavoro di “Western Stars“, “Working on a dream” pecca colpevolmente nella qualità del songwriting ed, in alcuni punti, si registra la caduta in inopportuna enfasi, come nel brano di apertura “Outlaw Pete”.
Oltre a non abbondare di canzoni realmente valide, ancora una volta appiattite dalla produzione di Brendan O’ Brien, la stessa sequenza di brani pare pasticciata e si perde quel tentativo di classicismo sixties pop che poteva essere un valido trait d’union generale per tutto l’album.
Insufficienti un buon numero di brani, come la zuccherosa “Working on a dream”, la fiacca “My Lucky day”, la stucchevole “Surprise Surprise”, le innocue “Queen of a supermarket”, “What Love Can Do” e “Life Itself”, nulla più che gradevole il comunque mal riuscito blues urbano di “Good Eye”.
Promosse le beachboys oriented “Kingdom of days” e “This life” e senz’altro gradevole la dylaniana “stile Nashville Skyline” “Tomorrow Never Knows”.
Fortunatamente sono presenti anche in questo album dei capolavori che, nonostante non salvino l’album dall’insufficienza , si elevano per la loro essenza ovvero “The last Carnival” , dedicata al compianto E-Streeter Danny Federici e “The Wrestler”, vincitrice con merito del Golden Globe per la colonna sonora del’omonimo film di Darren Aronofsky.
Pubblicazione: 27 gennaio 2009
Genere: Rock
Lunghezza: 51:20
Label: Columbia
Produttore: Brendan O’Brien
Tracklist:
Outlaw Pete
My Lucky Day
Working on a Dream
Queen of the Supermarket
What Love Can Do
This Life
Good Eye
Tomorrow Never Knows
Life Itself
Kingdom of Days
Surprise, Surprise
The Last Carnival