Di Piero E. Zaccagnini
Dopo anni di silenzio, con grande stupore anche per gli addetti ai lavori, i Cranes sono tornati alla ribalta e per il loro fan più appassionati, è stata davvero una piacevole sorpresa.
Nell’arco di pochi mesi, dall’autunno del 2023 il gruppo formato dai fratelli Alison e Jim Shaw, Mark Francombe, a cui nel tempo si aggiunti Matt Cope, Paul Smith, Ben Baxter e John Mattock, John Callender ha realizzato un nuovo disco (il remake di “Fuse”) contenente brani già presenti nei loro primi EP, a cui è seguito un tour europeo celebrativo del trentennale dell’album “Forever” iniziato a Londra lo scorso ottobre all’Earth theatre – in alcune date sono stati supportati dai Deary dell’incantevole Dottie – ed infine la Cherry Red Records, il 28 giugno 2024, farà uscire un cofanetto retrospettivo di ben sei dischi, contenente la loro discografia fino al 1997.
I più fortunati potranno vederli live nella loro unica data italiana a Bologna il 4 luglio al BOtanique Festival.
Per chi non conoscesse la storia e la discografia pregressa dei Cranes, possiamo ricordare che Alison e Jim hanno vissuto a Portsmouth ed il loro nome deriva proprio dalle grandi gru (questa è la traduzione di Cranes) che si ergevano nel porto della loro città, anche se Alison ha sempre sostenuto che la gru, intesa come volatile, nella cultura orientale è simbolo di speranza e questa era la vera scelta del nome.
Ai primordi della loro carriera – nel 1986 fu concepito il demo di “Fuse” – dopo un periodo di totale indifferenza da parte del pubblico, furono notati dal noto conduttore John Peel, per cui incisero una session e da tal momento fu un ascesa in continua progressione. Dopo la pubblicazione del EP “Self-non-Self” autoprodotto con l’etichetta Bite back in cui appare anche lo stesso singolo “Fuse”, nel 1990 firmarono per la più nota label Dedicated.
I brani dei loro esordio, apparsi anche come singoli sono molto più spigolosi rispetto alla produzione successiva, il suono più elettrico e distorto e la voce di Alison, pur magnetica ed inimitabile, appare tenebrosa, cruda ed acerba. A chi la definiva come la nuova regina del dark, Alison si scherniva, affermando di sentirsi più vicina a gruppi come Madder Rose, Mazzy Star e Cocteau Twins piuttosto che a Siouxie.
Nel settembre 1991 ebbe la luce “Wings of Joy”, il loro primo vero album in studio ed il loro singolo capolavoro “Adoration” (“IL” brano della mia vita: ricordo quando lo ascoltai la prima volta nel 1991 rimasi estasiato e trascinato in una dimensione che non
si può descrivere) fu nominato fra i primi venti migliori dell’anno dalle note riviste britanniche Melody Maker e New Musical Express.
“Wings of Joy”, impetuoso ed istintuale, pur apparendo come un disco dai toni scuri, con venature gotiche, conserva al proprio interno un suono melodioso che farà di brani come “Tomorrow’s tears” (incedere languido e vagheggiato, una lirica di disperato romanticismo; attimi dilucentezza cercano di riempire l’oscurità profusa, scavando nel profondo dell’anima; un brano che
magnifica l’ideale sul reale), “Living and breathing”, perle che saranno ricordate come memorabili a distanza di oltre trenta anni.
Nel frattempo i Cranes si fecero conoscere a livello internazionale e nel 1992 Robert Smith dei Cure li volle come gruppo spalla per l’apertura dei live di presentazione dell’album “Wish“.
Nell’aprile 1993 fu pubblicato “Forever”, il loro album più completo – a mio giudizio il migliore – dove vennero quasi del tutto abbandonate le sonorità più aspre per lasciare spazio ad atmosfere ariose e strutturate, sebbene sempre dal carattere notturno.
Brani come “Far away” (il pezzo più bello e di maggior fascino dell’album, con un finale toccante ed a largo raggio, note morbide ed appaganti, il superamento della barriera spazio – tempo, quasi un infinito musicale), “Jewel”, “Golden”, “Sun and Sky” esaltano le qualità di Alison modulando la voce su tonalità più eteree ed armoniose.
Il riscontro favorevole del brano “Jewel” (forse il brano più fruibile e che ha goduto di maggior notorietà fra tutta la produzione della band) fu talmente imponente che la Dedicated pubblicò un EP in più versioni, fra cui un remix di Robert Smith ed un cofanetto rosso con tre 7 pollici del brano, accompagnato dall’inedito “Leave her to heaven II” che risulterà essere uno dei brani più profondi di tutta la produzione Cranes, strutturato con un suono ascensionale e ripetitivo che proietta in una realtà parallela di implacabile tormento e la voce di Alison che scivola eterea in paesaggi inesplorati.
In questo periodo i ragazzi di Portsmouth lavorarono alacremente tanto che nel 1994 erano pronti a confezionare un doppio album, la cui metà dei brani, incentrata in una struttura orchestrale su base classica. La Dedicated preferì limitare l’uscita ad un solo disco ed a breve infatti il gruppo dette alle stampe “Loved”, con la pubblicazione parallela del singolo “Shining Road” in doppia versione integrandola con brani struggenti come “September” e “Don’t close your eyes”. Curiosamente “September” ha avuto da parte dei fan, maggiori attenzioni anche rispetto al brano principale. A mio avviso è una canzone magnificamente struggente, una ballata soavemente introspettiva, dove la voce di Alison si sovrappone ad un tappeto creato appositamente dalla chitarra classica. Nonostante il pubblico acclamasse questo brano durante i vari tour, la band raramente lo ha suonato da vivo.
“Loved” è un album avvolgente i cui brani – più che nei precedenti album – sono strutturati come vere e proprie canzoni, seppur vi siano brani di nostalgica inquietudine, quali “Are you gone?” (brano malinconico e lacerante, dove la dolcezza accarezzata della voce di Alison si sovrappone ad un giro di chitarra narcotico) o “Paris and Rome”. Il mio brano preferito del disco è “Come This Far”, spirali che si muovono, per approdare in una dimensione di energia sospesa, sconosciuta ai più, una vera purificazione catartica. “Shining Road” fu anche la colonna sonora del cortometraggio “Scarbourough ahoy!” della regista Tania Diez ed Alison sostenne che il brano era pensato per un viaggio di speranza, come la possibilità di un futuro migliore rispetto al passato lasciato alle spalle.
Nel 1996 il progetto orchestrale, accantonato ai tempi di “Loved”, prese corpo: l’idea fu quella di trasporre in musica l’opera di Jean Paul Sartre “Le mosche” e di farne una rilettura nella piece dal carattere teatrale de “La Tragédie D’Oreste Et Électre” dove Alison si cimenta in un’opera a tutto tondo con arie, appunto, da tragedia greca, con testi in francese.
Nel 1997 i Cranes tornarono alla ribalta con il singolo “Cant’t get free” seguito dall’album “Population Four”, a mio modesto avviso quello meno ispirato di tutta la loro produzione e che infatti raccolse tiepidi consensi. Paradossalmente il miglior brano dell’album è “Stalk” che è cantato non da Alison, che fa solo da contraltare, ma da Jim; tutti gli altri brani, rimangono a mezz’aria fra i suoni
scarni degli esordi e timide apparizioni verso sonorità più pop, ma non vi è un vero e proprio brano memorabile come poteva accadere con le canzoni di “Forever” o “Loved”.
La maggior parte dei pezzi sembrano riprendere le note ruvide dei primi album, ma il disco non decolla.
Quasi in contemporanea, sempre nel 1997, la Dedicated dette alle stampe il doppio album “EP Collection”, con una raccolta di tutti i precedenti singoli, ma il connubio con l’etichetta britannica non ebbe seguito e si esaurì ed i Cranes che erano rimasti legati alla Dedicated, per quasi tutta la prima parte della loro carriera, sembrarono rinunciare ad un futuro musicale.
Furono necessari quattro anni prima che il gruppo dei fratelli Shaw, nel 2001, autoproducendosi con l’etichetta Dadaphonic, si riaffacciasse sulle scene con “Future songs”, un album, a mio avviso di transizione. In alcuni momenti sembra di rivivere l’inquietudine di “Self-non-Self”, in altri Alison diluisce la voce in sfumature cromatiche più variegate: molto bella la title track “Future song” e “Driving in the sun”, dove la tensione si alterna a profondità illusionistiche, altri brani però galleggiano senza densità, riutilizzando spunti già sentiti.
Nel 2002, a sorpresa il gruppo di Portsmouth pubblicò per l’etichetta spagnola Elefant – già nota per aver sotto contratto gruppi indie, quali ad esempio gli svedesi Club 8 – un 7 pollici con due brani (“The moon city” e “It’s a beatufil word”) dove riemerge il loro animo migliore, quello più dolce e gentile, frammenti armonici sussurati.
Nel 2003 la Dadahonic raccolse i loro brani suonati dal vivo durante il tour di promozione di “Future songs” e pubblicò l’album “Live in Italy”, dove alle canzoni dell’ultimo lavoro in studio, si aggiunsero i loro cavalli di battaglia tratti dai primi tre album “Wing of joy”, “Forever” e “Loved”.
Dopo appena un anno, nel 2004, ebbe luce “Particles and Waves”, un album complesso, un vero susseguirsi di luci ed ombre. In questo lavoro vi sono brani che ricordano le atmosfere fredde e glaciali di “Self-non-Self”, ma anche canzoni molto più ariose come “Vanishing Point” – che apre l’album – e “Far from the city” e non mancano brani solo strumentali.
Anche questo album, come i due precedenti “Population Four” e “Future songs” non raccolse consensi favorevoli dalla critica e solo il pubblico più affezionato continuò ad apprezzarli.
Nel 2008 i Cranes uscirono con l’album intitolato con il solo nome della band e lasciate alle spalle le incertezze dell’ultimo periodo tornarono a splendere come nei loro primi album. In questo loro ultimo disco in studio, più eclettico e riflessivo, vi sono brani come “Wonderful things” (brano, ancora una volta acustico, dove la voce di Alison si insinua dolcissima e con toni opalescenti e ti sospinge in un universo senza tempo, un alchimia di atmosfere rarefatte, dove perdersi, volteggiando, senza volersi ritrovare) e “Collecting stones” (brano da ascoltare a luce spenta per blandire i nostri sogni), dove risalta la vena diafana e cristallina di Alison. Il disco ha il pregio di non uniformarsi su suoni monocordi ma, come un anello di congiunzione con il passato, spazia in costruzioni stilistiche subliminali.
Dopo la lunga assenza di notizie, durata oltre quindici anni, ci ha lasciato stupefatti apprendere che nella band era rinata la voglia di suonare in pubblico e l’esigenza di ripubblicare le loro prime canzoni con l’album “Fuse”; tutto questo ci induce a sperare che presto riavremo anche un nuovo album in studio; per ora godiamoci il cofanetto celebrativo ed i loro live a luglio, sognando di essere cullati dalla voce di Alison che ancora ci delizia con i vecchi classici.
Il box della Cherry Red copre il periodo che va dal 1989 al 1997, ovvero da “Self-Non-Self” a “Population Four”. L’interessante raccolta chiamata “Collected Works Vol. 1” è completata non solo dalla presenza di b-side, brani live e rarità del periodo di uscita dei vari dischi, ma anche dalle esaurienti note curate proprio da Alison Shaw, che ha supervisionato l’intero progetto. Ovviamente il cofanetto è rivolto ai completisti, che possono trovare album e chicche varie in un solo prodotto, ma anche a chi volesse avvicinarsi per la prima volta alla band, andando a scoprire quelli che, forse, sono i lavori migliori dei Cranes.