Il nuovo album di Maya Hawke, “Chaos Angel”, è un lavoro che sgombera il campo da ogni retropensiero o congettura di sorta: c’è del talento nella figlia di Uma Thurman ed Ethan Hawke. Altro che capricciosissima privilegiata, la cantautrice newyorkese – già star di quella Serie Capolavoro che risponde al nome di “Stranger Things” – ha sfornato un disco che trasuda compattezza sonora da ogni sua nota. Con buona pace dei diffidenti e di chi misura la caratura di un artista dal proprio (a volte ingombrante) cognome.
“Chaos Angel”, dicevamo. Si tratta di un album sognante, etereo, variegato, dove l’indie-pop più spoglio e cantautorale si incrocia con la classicità epica della musica statunitense, dando vita a dieci tracce che brillano di luce propria e che conducono l’ascoltatore verso le morbide liriche della Nostra. “Dark”, per esempio, è una ballatona acustica che non sfigurerebbe nella colonna sonora di un film post-adolescenziale, mentre “Big Idea” è una mid-tempo dall’andamento solare e scanzonato, nonché armonicamente impeccabile.
È un lavoro introspettivo, “Chaos Angel”. Una specie di “diario” sonoro in cui la Hawke è riuscita a trovare un modo decisamente efficace per connettersi con le persone da una prospettiva che potremmo definire fragilmente umana, ricordando che tutte le emozioni sono le stesse, indipendentemente dai privilegi che una persona può possedere. “Missing Out” rappresenta il vero e proprio pezzo pregiato del lotto, una traccia che cattura chi ascolta come una piuma nel vento, sciorinando tutte quelle peculiarità che rendono la musicista/attrice statunitense uno dei nomi più interessanti della scena internazionale.
Il suo campionario musicale, infatti, si pone esattamente a metà strada tra l’intimismo acustico-tagliente di Adrianne Lenker ed i mondi più luminosi (e patinati) della narrazione di Taylor Swift. Provando a tirare un po’ le somme, dunque, “Chaos Angel” si eleva ben al di sopra della sufficienza, pur non consacrando ancora – o, almeno, in maniera definitiva – la giovane cantautrice americana. Per lustrini e riconoscimenti mainstream, però, c’è sempre tempo; quel che conta – alla fine dei giochi – è l’indiscutibile buona qualità della propria proposta artistica.
Ben fatto, Maya.