C’è un gruppo di predicatori gallesi, duri, sporchi e maledetti, che da anni girano per il mondo avendo in mano non una “Holy Bible” (nome di un loro famoso album”….), ma solidi manici d’acero e bacchette per percuotere pelli.
I Manic Street Preachers, o Manics come vengono familiarmente appellati dai fans, sono fra gli alfieri del combat rock stile Clash iniettate dalle sonorità dei da loro ascoltatissimi Joy Division, Guns & Roses e Sex Pistols. Ed ereditando la Londra incendiata da Strummer e amici, divennero i difensori dei minatori di Scargill. Ma la storia del rock non è fatta solo da chitarre distorte e rullanti sparati a tutto volume, ma anche da leggende ed aneddoti che ne sono parte integrante, storie da raccontare, e i Manics sono nello specifico una fucina per appassionati. Fra automutilazioni sul palco, esibizioni iconoclaste alla BBC e simili, annoverano uno dei grandi misteri della storia del rock, quando nel 1995 il chitarrista Richey James Edwards sparì, tanto improvvisamente quanto misteriosamente, e a parte alcuni avvistamenti in stile presleyano, non si è mai più saputo niente di lui se non ritrovare la sua auto abbandonata sulle rive del Severn.
Per fortuna i 3 componenti rimasti, passato lo shock, continuarono a produrre ottima musica, i predicatori di strada non abbandonarono la diffusione del verbo musicale, regalandoci perle tutte da ascoltare negli anni fino ad arrivare all’odierno Rewind the film. Il disco si apre con un pezzo dalle sonorità sorprendenti per il trio gallese, The Sullen Welsh Heart è un brano arpeggiato in stile folk, non a caso ospita la calda, suadente, voce della cantautrice acustica del Warwickshire , Lucy Rose, già definita “una voce che scioglierebbe anche il cuore più duro”, toni sorprendenti per aprire questo vaso di Pandora made in Manics. All’estremo opposto la seguente, poppeggiante Show me the wonder, un inno nazionalista che riporta alle origini dei componenti, un inno alla gioia, alla spensieratezza ed al Galles che dall’apertura con i fiati in avanti fa cantare e ballare chi l’ascolta. Splendida la lunga title track “Rewind the film”, che annovera anche l’apporto di Richard Hawley, chitarrista dei Pulp. Arpeggi e ritmica ci raccontano di malinconia e rimpianto, la voce di Bradfield è interprete magistrale per una chicca da intenditori.
La seguente “Builder of routines” ci trasporta da Cardiff a Liverpool, echi quasi beatlesiani con reminescenze Joy Division, un ottimo connubio per una canzone che deve essere riascoltata più volte con attenzione per una piena comprensione. Sul gradino 5 troviamo “4 Lonely Roads” con l’interpretazione della cantante gallese Cate Le Bon in un brano dolce e sognante che parla di fiducia e speranza dove gli strumentisti lasciano campo libero alla singer ospitata senza sovrastarne la leggerezza vocale. “(I miss the) Tokyo Skyline” è un tributo di Nicky Wire alla sua amata Tokyo, una colonna sonora per la città dove l’autore si sente più libero e che fa il verso al famoso film di Sofia Coppola, accompagnamenti di archi fanno da sfondo all’affresco di note creato dai Manics. Con il settimo pezzo, “Anthem for a lost cause”, torniamo nelle righe della più pura produzione musicale dei nostri Predicatori preferiti, canzone tanto minimale, quanto appetibile, che ci fa riassaporare il profumo degli album passati, fiati e pizzicate sulle corde ne fanno un pezzo a tratti quasi sontuoso.
“As Holy As the Soil (That Buries Your Skin)” trova imperiosa la batteria di Sean Moore a dettare I ritmi su cui si imperniano le evoluzioni canore di Wire, con cambi di tonalità continui, la noia non abita qui.
Bellissima “3 Ways to see despair” , tutti e tre i gallesi danno il meglio per rendere omaggio al suicida Stuart Adamson dei Big Country, rullanti e giri di chitarra su una interpretazione vocale di altissimo livello per un pezzo da playlist. Ma che i Manics abbiamo tenuto il meglio per chiudere questo album? Running out of fantasy è una di quelle perle nascoste che trovi dopo avere aperto la conchiglia, arpeggi delicatissimi ci raccontano una storia di introspezione che con le sue tonalità ci avvinghia in un abbraccio senza tempo. La splendida “Manorbier” è un tributo al castello gallese che ospitò i talenti di Virginia Woolf e George Bernard Shaw, una suite strumentale che riesuma anche il mitico Theremin per aggiungere sonorità mistiche a questo piccolo capolavoro di note armoniche su panorami da sogno. Splendida “30-year war” che va a chiudere le 12 tracks confezionate, veloce, potente e rockeggiante che riscopre le radici riots attaccando la vecchia feccia di Eton simbolo del Thatcherismo più becero.
I Manics sono forse l’ultimo baluardo del combat rock politicizzato e ribelle che ha bruciato l’Inghilterra negli anni ’80, questo “Rewind the film” è un album a tratti sorprendente, usa fiati e contaminazioni folk con dosaggi sapienti senza cadere nelle tentazioni che hanno fatto scivolare altri gruppi in un groviglio di musica più adatta ad un ranch che ad un pub. Le guests folk-star sono chicche infilate in una collezione di pezzi rock che testimoniano che la razza dei Predicatori di Strada è ancora viva e vegeta e propaga ancora il suo verbo senza tempo per le strade e, in questo caso, le miniere, del mondo.
2. Show Me the Wonder
3. Rewind the Film
4. Builder of Routines
5. 4 Lonely Roads
6. (I Miss the) Tokyo Skyline
7. Anthem for a Lost Cause
8. As Holy As the Soil (That Buries Your Skin)
9. 3 Ways to See Despair
10. Running Out of Fantasy
11. Manorbier
12. 30-Year War