Fra titani oscuri e Ulisse temerari, sgomita nei fondali blu notte più profondi della rete l’australiano Michael Snoxall e l’anima brumosa di Lost Salt Blood Purges, sua personale creatura metà  uomo e metà  vapore. Sgomita bolle d’aria, viene a galla, si estende come una nube d’intorno e non ci passa accanto certo inosservata, e già  questo non sembrerebbe affare da poco nell’intricato ginepraio della musica sperimentale contemporanea.
Trasalite certe ansie da copertina dopo i primi lenti, magmatici minuti, l’esoterismo della matita di Ov Exyn Infà«rnvz è scongiurato, il versante black metal è escluso. Certo, non che appaia più sereno il sentiero da percorrere, ma ogni malessere sceglie il terreno del folk per scivolare a confine; un folk deturpato, sottofondo di coltri fitte di drone metafisico, di abrasioni che trasformano il sogno in pura interferenza.

La ratio di ogni angoscia neofolk (l’animo nero, irrazionale, arrendevole del lavoro) è solo una delle tante facce di questo doppio “Only the Youngest Grave”, terzo album ufficiale partorito dietro questo moniker, il resto è paesaggio sospeso tra sogno e incubo, nebbioso – senz’altro -, freddo, ma mai del tutto disumanizzato (e più che alle derive del black metal è al post rock di matrice Godspeed You! Black Emperor che rimandano molti segmenti). Che sia sorretto dal tribalismo ancestrale di frotte scomposte d’indiani d’America (la prosopopea sciamanica stordente di “The Spitit Meets the Skin” o la nenia funebre fra incenso e mescalina di “First Chant: Waxing, Waning Moon”) o che sia affidato a metabolismi di matrice dichiaratamente harsh noise (il pianoforte scorticato vivo di “Abject Lust of God” o le tempeste noise improvvise di “Aura of Silent Moors and their Chambers” a lasciare il posto a un’estasi di dilatazioni) il disco sembra costantemente orientato a tracciare una mappa dello sgomento umano, tuttavia senza prendervi mai parte.

Perchè “Only the Youngest Grave” appare si un monolite, ma ha l’organicità  del poema epico, pieno di spazi aperti, di silenzi, di minacce tese che non esplodono mai del tutto, se non nel pensiero. Due metà , due rocce sormontabili solo in parte, la prima più ripida, spigolosa, la seconda più tenue, densa, tesa.
Un disco pieno di tratti distintivi, diremmo quasi unici, dove persino l’uso di un sax scandisce cellule melodiche, metriche jazz in un clima di totale dissesto. Ci appare fuori dal tempo e capofila di un discorso interessante e veramente ispirato questo lavoro, fra le tante, troppe uscite (spesso inintercettabili) di derivazione ambient, per la sua attitudine di confine e per molto altro ancora. Un segnalibro, insomma, lo merita tutto.