Come il vento soffia, muove i rami da una parte e dall’altra. Il fruscio, il magico fruscio che porta il sogno oscuro. Il sogno di dolore e sofferenza. Dolore per la vittima, dolore per chi infligge dolore. Un cerchio di dolore, un cerchio di sofferenza. Sfortuna per chi vede il cavallo bianco.
Questo, uno dei memorabili monologhi poetici che ci ha regalato Margaret Lanterman, la Signora Ceppo, nelle precedenti stagioni.
David Lynch torna con quello che è il sequel più atteso e inaspetatto di tutta la storia delle serie tv.
E’ possibile trovare ora una luce, 25 anni dopo, in quell’abisso psico-onirico che è stato costruito dalle nostre più irrivelabili angosce e paure ?
Se la trasposizione su celluloide di quello che è il sequel più atteso e inaspetatto di tutta la storia delle serie tv non fa altro che aumentare i nostri dubbi e le nostre domande riguardo l’universo Lynch, una delle uniche certezze della terza stagione della serie è la presenza all’interno di ogni singolo episodio (eccezione per pochi) della performance di vari artisti che si esibiscono sul palco del Bang Bang Bar al termine di ogni puntata.
Una dinamica, questa, assolutamente originale per una serie tv (come potrebbe essere altrimenti?). Le canzoni, la maggior parte delle quali hanno già vissuto di luce propria, sembrano essere state scritte appositamente per la trama narrata e dimostrano un’importanza al pari di ogni singolo personaggio che appare in video. Niente intermezzi e brani strumentali tipici delle colonne sonore da film (per quelli demandiamo all’altra soundtrack in uscita contemporaneamente con i brani composti dal genio Angelo Badalamenti) ad eccezione della celebre “Twin Peaks Main Theme”, qui più corta rispetto alla versione originale posta in apertura di questa raccolta così come ovviamente all’inizio di ogni puntata.
Sono i Chromatics ad aprire, (già apprezzati in un’altra pellicola cult, ovvero “Drive”) con il loro ispirato sinth pop di “Shadow”. Shadow, take me down with you/ombra, portami giù con te. Potrebbe esistere frase migliore che rappresenti in poche parole la visione del regista americano?
Stesso genere di sound più tendente all’indie ce lo fanno ascoltare le Au Revoir Simone con la soffice “Lark”.
Si può trovare ogni tipo di sfumatura in questa soundtrack, dall’elegante country classico dei The Cactus Blossoms, alla ballad languida anni 60 delle The Paris Sisters.
C’è uno strumentale noir R’n B dei Trouble, progetto in cui compare Riley Lynch, figlio di David, con un ossessivo sax che sembra debba esplodere da un momento all’altro e la meravigliosa ballad “Tarifa” di Sharon Van Etten che in questa versione viene privata incolpevolmente dai fiati che aprono meravigliosamente il ritornello.
E ancora il rock industrial e torbido dei Nine Inch Nails, un classico dei Platters, il divertente rock g-riffato degli ZZ Top, l’indie teatrale e conturbante dei The Veils e molto altro.
Una spanna sopra tutti, ci teniamo a citare l’incredibile performance vocale di Rebekah Del Rio, che già aveva calcato il palco del club Silencio in Mulholland Drive e la perfetta cavalcata pop di Lizzie in “Wild West”.
E poi c’è lui, Mr Eddie Vedder presentato sul palco del roadhouse con il suo vero nome, Edward Louis Severson, che con la canzone “Out of Sand” scritta apposta per la serie riesce ancora una volta a lacerarci l’anima semplicemente con la sua sola voce (patrimonio unesco dell’umanità ), una chitarra acustica e un testo che ci ricorda che “il tempo sta per scadere”. Canzone, questa, ispirata come i momenti migliori della soundtrack di “Into the wild” o come le ballads della band madre.
Ci chiedevamo in apertura se sia possibile trovare una luce. Beh la risposta forse sta nella musica, in queste anime musicali che Lynch ha saputo scegliere accuratamente per poter trovare un pò di sollievo nel fitto bosco di dolore e oscurità che a volte è la vita.