I Grizzly Bear sono uno dei più mirabili esempi contemporanei di musica sofisticata, “distante”, barocca, al contempo incorporando pose e sapori in qualche modo ““ apparentemente ““ tipici dell’indie-rock post-2000, mixando chamber-pop e folk urbano, alienazione e dolcezza, sogno e una realtà sfuggente e frastagliata. Eppure “tipico” è un termine che mal si addice al quartetto formatosi a Brooklyn e al suo piglio “progressivo”. Il talento nel songwriting, il gusto nella scelta dei suoni e nel partorire abbozzi di melodie che diventano imprendibili e sfocate infiorescenze psichedeliche, non ha niente in realtà dei clichè della indie-pop band moderna. Se i Radiohead possono essere considerati gli espressionisti dell’alt-rock, i Grizzly Bear possono esserne considerati gli alfieri impressionisti, con le loro tenui pennellate che proiettano paesaggi tra l’afflato astrattista, infinitizzante e lo spaesamento domestico, quotidiano. Una ricerca che nulla ha a che vedere con le derive disco appiattenti di paladini in declino dello spirito indie (tenuta live a parte) come gli Arcade Fire, ma che anzi prosegue testarda, eppur svagata, tra i detriti malconci del mondo d’Oggi, mantenendo un raro senso di purezza e nitore stilistici.
Quella sensazione di confusione surreale, di soavità intricata, di onirismo puro e fragilissimo, perso in fluorescenti rivoli di esotismo metropolitano, continua a informare la musica dei quattro, qui, se vogliamo, un po’ più attenti ““ più che piacevole constatazione ““ alle possibilità guidanti del ritmo e al fascino algido dei sintetizzatori e delle macchine elettroniche. “Painted Ruins” è un disco meno immediato del comunque altrettanto complesso predecessore “Shields”, senza singoloni come “Yet Again”, nè tantomeno come “Two Weeks” (dal caro vecchio “Veckatimest”), anche se “Losing All Sense” riecheggia tangenzialmente proprio quel vecchio successo, con la sua vena surrealista e le ritmiche legnose, affogate in un fatalismo lezioso. “Mourning Sound”, primissimo singolo dell’album, è stato inizialmente etichettato come il pezzo “commerciale” del lotto, ma invece sfoggia lucenti vesti robotiche e un giro quattrocorde-batteria grasso, ipnotico e ficcante, elementi tutt’altro che adatti ad un brano fm-friendly. I momenti più interessanti dell’album comunque sono costituiti da tracce tanto monolitiche quanto di cristallo come “Three Rings” e “Cut-Out”, capaci di aprire con disinvoltura squarci spumeggianti di luce oscura su trame dream-pop timidamente policromatiche.
Tutte le caratteristiche dell’album vengono filtrate e sublimate nella conclusiva, elegantissima “Sky Took Hold”, probabilmente il manifesto introspettivo di sgomento adulto e ricerca interiore della band, uno sguardo malinconico al passato e un proiettarsi su un futuro incerto (cristallizzato dall’inquietante coda elettronica), attraverso climax spumosi, grumi di rullate e fiabeschi pendii della memoria.
Credit Foto: Tom Hines