C’erano una volta gli anni ’80. C’erano acconciature paradossali frutto di tonnellate di lacca, in barba al buco dell’ozono, allo scioglimento dei poli e all’innalzamento del livello delle acque. C’erano lustrini e paillettes luccicanti. Poi c’era anche la new-wave e il synthpop, e c’erano gruppi come i Blondie.
Ma ad un certo punto qualcuno decise che tutta la dissolutezza di quella decade non era cosa buona e giusta, e ne fu decretata la damnatio memoriae. Prima il grunge e poi il britpop contribuirono a far dimenticare il decennio di fango, dal quale non si usciva vivi.
Almeno fino ai tempi più recenti, che hanno manifestato la propensione di molti gruppi a recuperare spezzoni del suono di un’epoca/scena/band (poco importa quale) e a riproporne la propria personale versione più o meno adattata alle mode correnti. Il problema è che l’operazione in questione presenta grosse insidie, la più pericolosa e subdola delle quali è quella di suonare niente più e niente meno che come una cover band da pub del giovedì sera.
Ci provano pure i Long Blondes, a cimentarsi nell’impresa, e con il loro secondo album cercano di riesumare il suono più disco-oriented e glamour degli anni ’80; purtroppo per loro (e per le mie orecchie messe a dura prova dall’ascolto consecutivo di questo “Couples” per troppe troppe volte, alla disperata ricerca di qualcosa di buono) non ne escono affatto bene.
“Couples” mette in fila quaranta minuti di idee confuse, buone forse per riempire un disco di b-sides natalizie, ma che poco hanno da spartire con il ben più entusiasmante esordio della band di Sheffield. Una manciata di canzoni statiche e stanche, che si trascinano troppo oltre il necessario – e l’umanamente accettabile anche per i timpani più tolleranti – valide giusto per fare due salti in pista tra un pezzo dei Blondie ed uno dei Pulp. Alla fine del disco sembra di aver ascoltato per tutto il tempo dieci remix (nemmeno riuscitissimi) dello stesso pezzo, con l’unica eccezione di “Here Comes The Serious Bit” e poco altro. Tutto è monocorde, gli arrangiamenti sono ripetitivi e manca un minimo di mordente: nemmeno la voce di Kate Jackson riesce nell’improba impresa di resuscitare il morto…
Scrivere questa recensione è una inutile agonia, almeno quanto lo è ascoltare il disco per intero: sparare sulla Croce Rossa non ha mai avuto esiti fruttuosi, quindi dato che fuori c’è un sole da pieno agosto e gli aggettivi negativi di mia conoscenza iniziano a scarseggiare, la pianto qui ed esco. Non prima di aver liberato lo spazio necessario a caricare il nuovo disco dei Boris sul mio lettore mp3: uhmmm, chissà cosa cancellerò…?
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